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Dei, razze umane ed evoluzionismo

Ultimo Aggiornamento: 29/08/2012 11:33
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29/08/2012 11:33
 
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PARTE 4

IL GRUPPO ALFA ED IL GRUPPO OMEGA
è mia convinzione che gli antichi dei, coloro che adesso noi chiamiamo alieni od
extraterrestri, portarono quei nostri antenati nel Nuovo Mondo per motivi che sono
compatibili con quanto emerge complessivamente dalle ricerche del professor Corrado
Malanga. Sinteticamente, ciò ha consentito di monitorare il susseguirsi generazionale
di determinate linee di sangue per scopi che, a mio avviso, sono stati quasi
definitivamente individuati dallo studioso testè citato, ai lavori del quale io senz’altro
rimando il lettore. Non solo, ma l’esistenza delle due umanità è anche compatibile con
il quadro rappresentato dall’esistenza di due antichissime sfere di influenza dovute a
quello che fu, a mio avviso, l’accordo sulla cogestione occulta dell’essere umano, al
termine di quella guerra che rappresentò sia la fine del periodo atlantideo (Genesi 6)
che il motivo scatenante della brusca fine dell’ultima glaciazione (con le 13
conseguenti catastrofi naturali riassunte in modo paradigmatico nel diluvio universale,
Genesi 7).
Ma non mi fermo qui: l’esistenza di due gruppi separati è un must per qualsiasi studio
di carattere psicologico (ma, tutto sommato, anche a livello sociologico) nel quale si
voglia essere certi che determinati effetti sono il risultato di determinati elementi
causali, solo di questi e non di altri. Siamo nell’ambito della scuola del
comportamentismo (anche nota come quella dello stimolo-risposta), ovviamente di
matrice americana, ma con grandi debiti di riconoscenza verso le sperimentazioni
tenute nei lager nazisti.
Orbene, è lecito affermare che l’ effetto δ è correlato alla causa β, in un dato ambito Α,
quando δ non si riscontra nell’ambito Ω (che è il gruppo di controllo in riferimento ad Α)
omologo ad Α poiché in Ω sono state inserite cause (o input, o variabili che dir si
voglia) diverse da β. e δ in Ω si riscontra solo dopo l’immissione di β.
Per chiarire la necessità e l’utilità del gruppo di controllo userò come esempio (di
immediato interesse) un esperimento condotto da un team di ricercatori di una famosa
università americana, tra l’altro fortemente collusa con CIA, NCA e compagnia
cantante.
Nell’ambito di una più vasta ricerca sulla sessualità nei mammiferi, i ricercatori
utilizzarono dei topolini, con pari numero di maschi e femmine; le femmine erano in
calore. Si accertò che, dopo un elevato numero di ripetuti accoppiamenti, tutti i maschi
rimanevano inattivi a fronte delle provocazioni delle femmine, essendo queste ancora
in fase di estro.
A questo punto, metà (gruppo Α) dei maschi viene separata dagli altri (gruppo Ω) ed ai
maschi Α viene immediatamente presentato un gruppo di nuove spose (la variabile β): i
maschi Α si risvegliano all’istante, ritornando ad essere indefessi amatori (effetto δ, in
questo caso l’attività sessuale), mentre i maschi Ω continuano a perseverare nella loro
apatia. A fronte della successiva ricaduta nell’apatia (dopo una serie di ripetuti
accoppiamenti in quantità praticamente identica ai precedenti) da parte maschi Α, le
spose (la variabile β) di questi ultimi vengono presentate ai maschi Ω: un successone.
Questi, stimolati dalle femmine con le quali mai si erano accoppiati, ritornano
repentinamente all’attacco (effetto δ).
Grazie a tale metodologia, quegli studiosi hanno potuto evincere che:
nel maschio sano dei mammiferi la libido (effetto δ), a seguito di un calo per
sopravvenuta noia verso una determinata compagna, si riaccende con maggiore
facilità nei confronti di una nuova partner (causa β), il che, tradotto in termini umani,
piaccia o no alle nostre mogli ed alle femministe, equivale all’innata ideologia maschile
dell’harem e del gineceo.
Pertanto, dopo avere separato in due l’umanità, gli antichi dei hanno avuto tutto l’agio
di inferire quelle variabili che hanno ritenuto confacenti ai loro scopi. Prima dell’impresa
di Colombo, l’eventuale arrivo di navigatori vichinghi a Terranova e di qualche sparuta
nave fenicia alle Antille è congruo con l’ipotesi di un nuovo input in un sottogruppo
delimitato, stante l’enormità delle distanze e le difficoltà di comunicazione con gli altri
sotto-gruppi circostanti.

In tutte le religioni scopriamo che i rispettivi “paradisi” sono luoghi tutt’altro che pacifici
ed idilliaci. Quasi costantemente gli dei sono in guerra gli uni contro gli altri e gli uomini
sulla Terra ne fanno immancabilmente le spese, a volte come carne da macello sul
campo di battaglia (per esempio nella guerra di Troia), a volte come semplici vittime
passive ed inconsapevoli di catastrofi collaterali all’uso di armi micidiali.
Non posso fare un trattato di mitologia comparata; debbo estrapolare quei dati sensibili
che mi permettano di suffragare la mia convinzione che quegli antichi esseri ritenuti
sovrannaturali, in realtà non lo erano affatto, essendo, invece, individui sì più forti e
longevi dell’uomo, ma comunque fatti di carne e sangue, seppur in modo particolare.
Partendo dalle fonti sumere più antiche, fino ad arrivare ad Omero, Esiodo, Virgilio
(solo citando gli autori classici più famosi) e a Snorre Sturluson (autore scandinavo
dell’Edda, l’opera che narra di Odino, Thor, Baldr, ecc., ecc, scritta nel cuore del
medioevo europeo) troviamo pedissequamente guerre terribili, condotte spesso senza
misericordia pure nell’ambito di stessi gruppi familiari. In questo caso, in linea di
massima, a seguito del passaggio di un congiunto nel campo avversario (spesso
rappresentato da divinità con morfologia dissimile).
Non fa eccezione il Pantheon giudaico-cristiano, e di questo ho parlato diffusamente
nella prima parte del presente lavoro.
Anche gli antichi dei potevano (ed avevano paura di) morire: quelli dell’Ellade erano
legati ad una sostanza miracolosa, dagli autori classici variamente identificata
nell’idromele o nei pomi delle Esperidi, dispensata dalla bellissima Ebe. Così gli Aesir
dei Vichinghi erano subordinati ad una bevanda in possesso di un’unica dea; infatti,
costei, essendo in ambasce per problemi amorosi, dimenticò per un certo tempo di
somministrarla ai suoi pari e gli Aesir si rattrappirono e si raggrinzirono, rischiando di
morire di stenti.
Nel giardino dell’Eden c’e’ l’albero della vita eterna che Yahvè, geloso, protegge a
spada tratta contro le intemperanze della prima coppia umana.
Perfino nella più mistica India gli dei temono per la loro incolumità fisica: per esempio,
nel Mahabarata il grande dio Indra fugge terrorizzato, mentre rischia di cadere in un
rogo, trascinatovi dal suo amico, il principe dei serpenti Naga (etimo che ha la stessa
origine dell’ebraico nahas, serpente).

Le “coincidenze” numerologiche
Allo studioso di mitologia comparata si presentano sia similitudini che differenze: le
prime sembrano lecitamente appartenere al substrato più antico, mentre le seconde
possono essere attribuite a periodi successivi, ad opera della semplice rielaborazione
letteraria dei singoli autori.
Nell’ambito dei limiti che questo lavoro deve avere, non posso trascurare quelle
similitudini che sono fondamentali.
Il numero tre, che trova la sua ipostasi nelle triadi, si ripete costantemente, anche
basandosi su personaggi assai dissimili gli uni dagli altri.
Presso gli ebrei la ripetizione è quasi ossessiva: abbiamo i tre figli di Noè (capostipiti
delle varie razze bibliche), Lot e le sue due figlie; i tre arcangeli; il triangolo conflittuale
rappresentato da Yahvè, Satana e Michele.
Il numero tre è un concetto onnipresente in tutta l’Eurasia: se tracciamo delle linee
(che saranno curve), unendo ciascuna manifestazione a quella contigua, nell’ambito
dei diversi siti geografici, ci accorgeremo di tracciare una spirale che ha un preciso ed
unico centro di irraggiamento. Partendo dalla nostra Europa abbiamo le tre Norne
scandinave (che tessono il destino di chiunque, sia dio che umano); le tre Parche del
mondo elladico, con le stesse incombenze delle prime (vi sono pure le tre Gorgoni, le
tre Grazie, ecc., ecc); un sotto-ramo particolare è rappresentato dalla la Trinità
cristiana, succedanea di quella giudaica, e dalla sacra famiglia (Gesù, Giuseppe,
Maria) a Roma.
Partendo dal ramo africano abbiamo la triade capitolina egizia rappresentata da
Osiride, Iside ed Horus; poi la triade capitolina siriana con Nimrod, Semiramide e
Tammuz, a Babilonia.
Il ramo nel più estremo oriente è rappresentato dalla Trimurti, formata dalle tre
principali divinità: Visnù, Brahma e Shiva.
Avrei potuto inserirne anche altre (per esempio la triade capitolina omerica: Zeus, Era,
Pallade), ma ritengo che gli esempi qui riportati siano sufficienti.
Al centro dell’irraggiamento vi è la triade formata dal sumerico Anu con i due suoi figli,
Enlil ed Enki.
è altresì necessario dire che, man mano che da tale centro si procede verso gli estremi
dei rami della spirale, troviamo che tutte le varie manifestazioni triadiche si susseguono
secondo un criterio cronologico: perciò il centro della spirale è il nocciolo più antico
della stessa e l’ispiratore delle successive ipostasi. Pertanto, essa contiene una
valenza archetipica.
Sino ad oggi non ho trovato una tale similitudine numerica nelle civiltà precolombiane…
ma la ricerca continua.
Eppure, una coincidenza numerica si trova, nel Nuovo Mondo, in riferimento al numero
tredici.
In ambito eurasiatico, per individuare tale fenomeno bisogna lavorare un po’ sui dati,
ma è molto semplice.
Mi limiterò a fare gli esempi più famosi: gli dei greci che risiedono sul monte Olimpo
sono dodici, ma a questi si deve aggiungere indubbiamente Ade (Plutone per i Latini),
che ha pari dignità rispetto agli altri. Anzi, essendo fratello di Zeus-Giove e di
Poseidone-Nettuno, fa parte dei grandi dei della terza generazione esiodea; inoltre,
insieme al primo (che rappresenta il cosmo) ed al secondo (che rappresenta l’acqua),
egli forma un’altra triade parentale e primigenia. In effetti, chi ha avuto modo di studiare
il poco che ci è pervenuto dei Misteri Eleusini, ben sa che il vero Patronus (anche se
occulto) della religione elladica è per l’appunto il sovrano dell’Oltretomba, il quale è a
capo di quella dimensione alla quale tutti i viventi guardano con paura e pieni di
domande. Al suo confronto il grande Zeus fa la figura del discolaccio invecchiato.
Un altro esempio: sappiamo che gli apostoli sono dodici, (dopo il suicidio di Giuda
Iscariota il posto di quest’ultimo venne preso dal giovane Mattia), ma la reale totalità
evangelica della predicazione è data aggiungendo, per forza, Gesù Cristo, che ne è il
capo.
Lo stesso avviene in ambito sumerico: ai dodici dei mesopotamici bisogna aggiungere
il dio, fondatore della dinastia, spodestato da Anu, secondo gli studi di Zeharia Sitchin.
Ebbene, il numero tredici ricorre più volte nella Mesoamerica. Nella cosmologia Maya
abbiamo i tredici cieli dei “Patroni dei Mondi Superiori”; mi riferisco agli Oxlahuntikù
(Oxlahun = 13, Tiku = dei). Specularmene, e voglio sottolineare questo avverbio,
abbiamo, nei mondi inferiori, i nove Bolontikù (in cui Bolon sta per nove), ai quali si
sommano gli altri quattro elementi inferiori, i Bacab (cioè i quattro punti cardinali).
Quindi, anche in questo caso, è ripristinato il numero 13.
Il cronista spagnolo Bernardin de Sahagun, nel suo Informantes, ci dice che i Toltechi
(popolo di lingua Nahuatl come gli Aztechi e prima di questi stanziatisi sull’altopiano
dell’Anahuac):

Sapevano che i cieli sono molti, divisi in 12 o 13 scompartimenti sovrapposti, ognuno
col proprio dio numero […]. Il supremo dio è il Signore della Dualità e la sua
compagna è la Signora della Dualità. Ciò vuol dire che, al di sopra dei dodici dei,
predomina il 13, Ometeotl.

Tra gli Aztechi, successivamente, Ometeotl assumerà il significato di Signore
Giaguaro, diventando Ometecuhtli.
Sul fondamentale concetto di Dualità ritornerò più avanti, così come sul dio Giaguaro,
altrettanto importante. Al momento basti dire che, tramite questo brano (del quale ho
riportato la traduzione fatta da Angelo Morretta), si fissa un’altra analogia con i Misteri
Eleusini.
Difatti, Ade e la di lui sposa, Persefone (Proserpina per i Latini), nel culto misterico
avevano una tale connotazione dato che, avendo la possibilità di passare da quel
mondo in questo e viceversa, erano i detentori della conoscenza di questi due mondi
paralleli (e forse speculari, nel senso che uno è la visione inversa dell’altro).
Ecco perché vedere nei Misteri Eleusini un culto pseudosatanico è errato e
semplicistico.
Né voglio addentrarmi nel complesso mondo dei calendari maya: mi limiterò ad
accennare che il calendario lunare sacro, chiamato Tzolkin, era suddiviso in 20 gruppi
di 13 giorni cadauno, per un totale di 260. Personalmente ho potuto visionare (e
fotografare rischiando l’arresto) un disegno a pastello della fine del 1600, conservato
nel Museo Nazionale del Coricancha,a Cuzco (l’antica capitale dell’impero Inca),
raffigurante la gerarchia delle divinità incaiche: tra gli altri simboli compare una nitida
costellazione di 13 stelle. In questo caso siamo nel continente sudamericano. Per
inciso, tredici sono le attuali famiglie di Shapeshifter
rettiliani al vertice della piramide di controllo occulto globale, secondo il ricercatore
indipendente David Icke.

Le “casualità” diventano sempre più scottanti, ovverosia siamo sempre nella
Storia Nascosta
L’argomento si fa sempre più compromettente, quando nomi di accadimenti e
personaggi sembrano letteralmente spostarsi, pari pari, da un continente all’altro.
Nell’ambito della letteratura della Conquista un posto d’onore spetta al Codice
Ramirez:
il Señor Fernando José Ramirez, uomo dotto assai e membro di varie associazioni
letterarie, nell’ambito di un incarico affidatogli dal governo, scoprì, nella biblioteca del
Convento Grande francescano, a Città del Messico, un piccolo manoscritto in 4°, di
269 fogli, risalente alla metà del XVI secolo. Ogni pagina era divisa in due colonne,
quella di sinistra era occupata dalla versione spagnola, quella di destra era vuota, dato
che era destinata a raccogliere l’originale in lingua Nahuatl (la lingua principale
nell’impero azteco), cosa che evidentemente l’ignoto amanuense non riuscì a fare. Tale
libretto è l’esemplare meglio conservato della traduzione di un’opera purtroppo scomparsa (forse andata bruciata nei roghi insieme a tanti altri
codici originali messicani), redatta appena terminata l’impresa epocale di Hernan
Cortes, da un autore azteco in lingua Nahuatl, ma usando i caratteri latini.
Il manoscritto ha un titolo Relacion del origen de los indios que habitan esta Nueva
España segun sus historias (Relazione sull’origine degli Indios che abitano questa
Nuova Spagna, secondo le loro tradizioni storiche).
In quest’opera preziosissima troviamo dati importantissimi; mi limiterò ad analizzarne
alcuni.
In una lontana terra divisa in due province (una si chiama Aztlan che significa Luogo
degli Aironi, l’altra è Tehuculhuacan, che ha il pregnantissimo significato di Terra di
Coloro che hanno Antenati Divini), vi sono sette caverne, da cui escono le sette fiere
nazioni di lingua Nahuatl: esse occuperanno, dopo varie tappe e guerre, l’altopiano
circostante l’attuale Città del Messico. L’ultima è quella degli Aztecas (cioè ca =
popolo, dell’Aztlan).
Secondo l’anonimo autore essi partono dietro ordine degli dei, recando con sé
l’immagine del loro dio principale, Huitzilopochtli, il quale promette di dar loro la
supremazia su tutte le altre sei nazioni affini (Huitzili = colibrì, opochtli = sinistra, cioè il
lontano Est, da dove sarebbe venuta questa antica divinità solare). L’effige del dio
Colibrì dell’Est è racchiusa in un’arca di giunchi sorretta da quattro sacerdoti, i primi
legislatori della nazione. A capo del popolo in marcia viene messo un unico
condottiero, di nome Mexi, che sarà all’origine di uno dei tre
nomi degli Aztechi.
Amici miei, questo prezioso manoscritto dà fondamento testuale a tante concordanti
tradizioni orali già immediatamente raccolte all’epoca della conquista e gli elementi che
ci troviamo sotto gli occhi sono lampanti:

1) Anche gli Aztechi si ritenevano discendenti da antenati divini.
2) Uno dei nomi della loro patria di origine, Aztlan, ha un’indiscutibile somiglianza
fonetica con Atlantide, o meglio col nome greco (declinato nella sua forma nominativa
singolare) del personaggio mitologico Atlas, cioè il gigantesco Atlante, che dà nome a
quel continente perduto. Su questo vi è la convergenza di molti ricercatori indipendenti.
3) Il loro dio totemico è una divinità solare proveniente da Est.
4) Il termine Mexi è una storpiatura, una traslitterazione scorrettissima (errore che si
ripetè a piè sospinto in tutti gli scenari della Conquista) di un sostantivo Nahuatl, un
fatto comunissimo in quell’epoca: i primi ad arrivare ovunque furono soldatacci, non
filologi.

La corretta pronuncia Nahuatl suona così: Mosci, oppure Moshi. Ordunque, il nome
proprio Moshè (o Mosè) è egizio e non ebraico; tale nome compare nelle fonti spesso
anche nelle sue altre versioni di Moshi o Mosi, come avviene nel nome composto del
Faraone Tutmosi.
Nulla di strano: anche ai nostri giorni uno stesso nome può esistere con due (o più)
forme. Per esempio: Arnaldo ed Arnoldo - Eraldo ed Aroldo - Dionisio, Dioniso e Dionigi
- Nazario e Nazaro - Luigi ed Aloisio e così via.
A fronte di questa evidenza abbiamo che il nome del condottiero Indio si sovrappone
foneticamente a quello del condottiero ebraico. Non solo, ambedue recano seco un
elemento totemico protetto da un involucro ligneo.
Certo, molti diranno:

“Una semplice coincidenza!”

Ma amici, non vi sto illustrando un po’ troppe “casualità”? (Il bello è che sono tutt’altro
che finite). è mia convinzione che siamo innanzi ad elementi concettuali che ci
conducono o all’accadimento di un fatto di cui furono partecipi i rappresentanti di
ambedue le umanità (vedi la seconda parte di questo mio scritto) oppure siamo di
fronte alla manifestazione di un modello primigenio, immesso a guisa di archetipo
nell’inconscio collettivo di ambedue quei popoli. Chi si vuole ostinare a vedere, nel
nome biblico, semplicemente il significato di Salvato delle Acque pure deve cozzare
contro un altro remoto modello preesistente: secondo una leggenda sumero-accadica,
anche Sargon di Akkad venne trovato in una culla di giunchi abbandonata alla mercé
di un fiume impetuoso, ma Sargon il conquistatore precede Mosè di almeno mille anni.
Le coincidenze si presentano a piè sospinto nel senso di identità di concetti ed, a volte,
di accadimenti, e non nel senso di elementi casuali slegati da ogni nesso.
Andiamo avanti. Un pilastro letterario della civiltà Maya è rappresentato dall’insieme dei
libri del Chilam Balam.
Balam è il dio giaguaro, fondamentale divinità, onnipresente dalla Mesoamerica fino a
Capo Horn; Chilam è il termine che qualifica il successivo e significa Indovino (o
profeta), quindi abbiamo l’Indovino Giaguaro, che è anche il titolo di una categoria
ben precisa di sacerdoti, provvisti del dono di svelare le cose occulte.
I Libri del Chilam Balam formano la più antica raccolta di profezie e divinazioni maya,
nell’ambito del territorio dell’attuale Yucatan.
Ebbene, nella Bibbia, i capitoli 22, 23, 24 dei Numeri ci narrano dell’importante
episodio della vigliaccheria di Balak, re di Moab; costui, temendo di affrontare in
battaglia Israele guidato da Mosè, manda degli emissari ad assoldare un uomo dotato
del potere della divinazione:

Numeri 22,5-7: Egli mandò ambasciatori a Balam, figliuolo di Beor, a Pethor […] per
chiamarlo a dirgli: -Ecco un popolo è uscito dall’Egitto; esso ricopre la faccia della terra
e si è stabilito innanzi a me. Orbene vieni, te ne prego, e maledicimi questo popolo,
poiché è troppo potente per me; forse così riusciremo a sconfiggerlo e potrò cacciarlo
dal paese; poiché so che chi tu benedici è benedetto e chi tu maledici è maledetto. Gli
anziani di Moab e gli anziani di Madian partirono portando in mano la mercede
dell’indovino ed arrivati da Balaam gli riferirono le parole di Balak-.

Amici miei, qui siamo di fronte, ancora una volta, ad un concetto biblico ripetuto pari
pari in un testo sacro di un popolo d’oltre oceano: il nome proprio si ripete in modo
foneticamente identico, Balam-Balaam, e la qualifica è la stessa, Indovino.
Non mi risulta che nessun autore di vaglia (fatta eccezione per studiosi indipendenti
che hanno ben colto la similitudine tra Atlas ed Aztlan) si sia soffermato su queste
scottanti ripetizioni: ebbene sì, siamo ancora nel campo della Storia Nascosta.
Ma non e’ finita qui, ce n’è per tutti.
Il termine nahuatl per dio è Teotl, la pronunzia del quale, a causa delle consonanti
terminali (la - t - dentale e la - l - liquida), è troppo simile a quella del sostantivo greco
Theos, che ugualmente significa dio e che termina con la sibilante - s -.
Il termine nahuatl per impresa commerciale è pochteca, quasi identico al greco
apotheke e con uguale significato. Da esso deriva il nostro sostantivo bottega.
Studiosi ineguagliabili come Sylvanus Morley, Robert Sharer (ambedue docenti della
Stanford University of California) e Victor von Hagen (solo per fare alcuni nomi) sono
stati autori di esatte analisi etimologiche, ma non sono andati oltre: non si sono accorti
delle schiaccianti somiglianze? A mio avviso essi se ne sono resi ben conto, ma hanno
preferito trascurare lo scottante argomento, per un quieto vivere nell’establishment è
preferibile glissare.
Fa eccezione il solito Zeharia Sitchin (ed in questo caso ringrazio gli amici della chat
Arkanthos ed Athena per la segnalazione), il quale, in Gli dei dalle lacrime d’oro indica
una notevole analogia (e sono assolutamente d’accordo con lui) tra il nome della
capitale azteca Tenochtitlan (che significa il Luogo della Pietra e del Cactus) ed il
nome del figlio di Caino: Enoch. Ho gia detto, nella prima parte di questo mio scritto
che, in Genesi 4,17, Caino edifica una città nel paese di Nod, battezzandola col nome
del suo primo figlio, Enoch per l’appunto.
La più grande capitale mesoamericana è da collegare a quell’evento?
A mio avviso siamo ancora una volta di fronte ad un quid con valenza archetipica.
Vandalismi, evangelizzazione ed intelligence
Le nazioni Nahuatl, tra cui spiccano i Toltechi e gli Aztechi, ed i Maya costruirono
templi (in nauhatl Teocalli = casa di dio) che, per linee esterne, sono sovrapponibili,
almeno all’80%, alle ricostruzioni che gli archeologi fanno delle grandi Ziggurat dei
Sumeri, che sono le prime piramidi (a gradoni) della storia.
Purtroppo, dei templi messicani rimane solo una piccola parte, nonostante fossero
centinaia ed ovunque.
Coma mai?
Presto detto. I soldati spagnoli si diedero alla metodica distruzione delle vestigia
autoctone, per poi riutilizzare, seduta stante, il materiale ottenuto nell’innalzare le
cattedrali e le magioni dei nobili. Per esempio, l’attuale cattedrale del centro di Città del
Messico è stata edificata usando le stesse pietre che formavano il grande Tempio
Major di Tenochtitlan, sullo stesso luogo ove quest’ultimo sorgeva prima che venisse
raso al suolo. Semplicemente, a Carlo V d’Asburgo non gliene fregava niente del
patrimonio architettonico di un popolo schiavizzato e che non ha mai conosciuto di
persona in tutta la sua vita; l’importante era che gli arrivassero i galeoni pieni di
ricchezze.
Grazie a questa sovrana strafottenza, i preti ed i monaci hanno potuto attuare
indisturbati le volontà che venivano espresse da Roma. Il risultato è stato che l’autorità
imperiale si è limitata ad avallare la politica del papa, in riferimento a tutte le
manifestazioni della cultura indigena preesistente alla Conquista, politica nel cui ambito
vi furono scherani che gareggiavano tra loro allo scopo di mostrare il più grande
eccesso di zelo, agognando speranzosi porpora e prebende.
A distinguersi in quest’opera di distruzione degna di Attila fu un individuo funesto: il
francescano Juan de Zumarraga. Costui arrivò (per gran sventura di quella terra) a
Città del Messico nel 1528 e subito si dedicò alla persecuzione di qualsiasi persona o
cosa ricordasse il passato. Come risulta da una sua lettera autografa, inviata al capitolo
francescano di Tolosa, egli si vanta di essersi incaricato di dirigere la distruzione di
oltre 500 templi e 20.000 immagini sacre, il che equivale alla distruzione della memoria
di un popolo; in particolare si faceva punto d’onore di aver diretto le devastazioni pure
nell’immensa città sacerdotale di Teotiuhacan, già deserta ed abbandonata da secoli.
Ordunque, quando qualcuno di voi avrà la gioia di visitare (se non l’ha già avuta) quello
stupefacente sito archeologico (nei pressi della capitale) sappia che la quasi totalità
degli edifici abbattuti è da ascrivere a questo vandalo in tonaca, il quale divenne, nel
1547, il primo arcivescovo della nuova Città del Messico. Questo grandissimo
lestofante amava trascendere le direttive avute per arrivare agli
eccessi motu proprio. Fu anche organizzatore di decine dei famigerati Autodafè di
massa, durante i quali gli Indios erano costretti a ripudiare, umiliandosi ed umiliati, la
loro essenza e ad abbracciare il cattolicesimo.
Ignacio Bernal y Garcia Pimentel e Mireille Simoni-Abbat in L’America Precolombiana,
il Messico dalle Origini agli Aztechi (BUR-Milano, 1992) ci descrivono come costui
prendesse gusto alla distruzione delle statue presenti nei giardini di Montezuma:

Il paesaggio era completamente coperto di opere d’arte sontuosamente lavorate:
labirinti, fontane drenate, canali, bacini e bagni nei quali si riflettevano innumerevoli
statue. Zumarraga, primo vescovo de Mexico, ordinò di Hacer pedazos, entiende ser
algunos idolos (farle a pezzi, ritenendo che si trattasse di idoli) […]. Sappiamo anche,
da alcune fonti, che quei giardini erano ornati da una quantità di statue di animali,
talune in oro.

Perché questo accanimento?
Si voleva togliere dalla faccia della terra una quantità di prove di qualcosa?
Perché il Vaticano ha conservato gelosamente un numero sconosciuto, ma senz’altro
elevato, di codici originali messicani?
Eppure li aveva indicati come opere del demonio!
In una occasione, durante il tramonto, Zumarraga fece accatastare nella piazza
centrale di Tlatelolco un mucchio notevole di codici aztechi e diede loro personalmente
fuoco, dopo aver radunato una folla di spettatori indios mortificati e disperati: sotto i
propri occhi vedevano andare in fumo la loro storia, la loro identità. Eppure,
probabilmente ne salvò certi, e non
pochi. Ma quali? La risposta giace sulle sponde del Tevere. Strano atteggiamento
contraddittorio quello della chiesa cattolica nel Nuovo Mondo, ma sono convinto
che sia una falsa facciata.
Vediamo alcuni esempi.
Diego de Landa, pure francescano, fu distruttore dei codici maya nello Yucatan, ma per
trent’anni si dedicò allo studio approfondito di quella civiltà.
Un altro francescano, Berbardin de Sahagun, si dedicò all’insegnamento ed
all’evangelizzazione nel collegio di Santa Cruz, a Tlatelolco (nei pressi della capitale):
dal 1547 sino alla morte si profuse nella raccolta delle antiche tradizioni sia storiche
che religiose e sociali dei popoli di lingua nahuatl. Il risultato finale fu il prezioso Codice
di Firenze, che è una raccolta di disegni (secondo l’autoctona tradizione pittografica di
narrare la storia) con commenti in lingua nahuatl, ma con caratteri latini, ad opera di
nobili aztechi depositari delle antiche conoscenze, ai quali egli stesso aveva insegnato
preventivamente l’alfabeto latino.
Alla fine, completando il lavoro appena prima di morire, tradusse l’intero corpus in
spagnolo, lasciando ai posteri la sua Historia general de las cosas de Nueva España.
Frate Fabio di Motolinia, uno dei primi dodici sacerdoti a sbarcare nella Nuova Spagna,
percorse in lungo ed in largo quell’immenso paese sino a raggiungere lo sconosciuto
Guatemala, imparò il nahuatl e lasciò opere sia in tale lingua che in spagnolo.
Così come fece il domenicano Diego Duran (autore del famoso Codice Duranche, che
è una sistemazione delle stesse fonti all’origine del Codice Ramirez).
Andres de Olmos, giunto in Messico come confratello subordinato di Zumarraga,
imparò con grande facilità il nahuatl, tanto che scrisse la prima grammatica della
lingua. Fu l’iniziatore di quel metodo, seguito anche da Sahagun, consistente nel
mettere per iscritto gli Huhuetlatlolli, cioè i racconti dei vecchi indios, in lingua
originale ma in caratteri latini, allo scopo di preservarli testualmente, mettendo a lato la
traduzione spagnola.
Oltre che la suddetta grammatica, è arrivata sino a noi la pregevole Historia de los
Mexicanos por sus pinturas che è la prima analisi della scrittura pittografica degli
originali codici aztechi.
Qualcosa di simile è accaduto per il gesuita Juan Tovar (probabilmente era un indio od
un meticcio originario di Tezcoco, nei pressi di Città del Messico), che per 47 anni
esercitò l’insegnamento nei collegi di San Gregorio e di Tepoztlan; egli fu pure un
traduttore delle stesse fonti all’origine del Codice Ramirez. Conoscitore di ben tre
lingue (il Nahuatl, l’Otomi ed il Mazahua), fece un lavoro enciclopedico, del quale ci
sono pervenuti solo alcuni rammenti. Testimonianze dell’epoca ci parlano di un suo
codice redatto in spagnolo con testo nahuatl a fronte, con miniature a colori in
sequenza di cronaca pittografica.
Possibile che un tale lavoro sia andato perduto o distrutto? Non ci credo; più
probabilmente è ben conservato in un luogo in mano alla sua potentissima
congregazione.
Le modalità con cui i codici mesoamericani sono arrivati al grande pubblico ed agli
studiosi testimoniano eventi contorti e travagliati. Basti citare l’esempio del Ramirez.
Quel preziosissimo manoscritto cadde nelle mani del señor Ramirez solo in seguito ai
fatti cruenti che segnarono Città del Messico nel 1855, durante i quali fu devastato
anche il Convento Grande francescano. Egli entrò in quella specie di Sancta
Sanctorum in qualità di pubblico ufficiale del governo, incaricato di redigere un
censimento del patrimonio librario del paese; ciò vuole dire che, se quella biblioteca
non fosse stata vandalizzata, quell’opera fondamentale
giacerebbe, assai probabilmente, ancora ignota ai più.
Da quanto esposto emerge un quadro in cui da una parte il clero si dedica ad un’opera
vandalica ed iconoclasta, per mortificare gli Indios ed indurli alla sottomissione al
cattolicesimo, ma dall’altra si impegna in un’attività di raccolta-dati metodica ed a
tappeto sul territorio di competenza, che si basa, in primo luogo, sulle testimonianze
della elite sopravvissuta alle epurazioni immediatamente seguite alla caduta
dell’impero azteco.
La realtà è che le civiltà precolombiane erano di massimo interesse per le gerarchie
vaticane.
Quindi l’apparente contraddizione prende più che altro l’aspetto di un gioco e doppio
gioco ante litteram, un’abile manovra dall’ampio disegno.
Nel sottosuolo dei templi distrutti si cercavano solo tesori in metalli preziosi e gioielli?
Cosa c’era scritto nei codici originali distrutti?
Perché il Vaticano mette a disposizione degli studiosi solo pochi tra i codici che
realmente possiede?
Fortunatamente la foresta pluviale ha conservato numerose ed imponenti vestigia,
soprattutto in territorio maya, celandole agli occhi dei conquistatori sino alle scoperte di
Stephens e Catherwood, tra il 1838 ed il 1842. Se il centro di Teotiuhacan ci è arrivato
in buone condizioni il fausto motivo è dovuto alla mole grandiosa dei templi e delle due
piramidi: ci sarebbe voluta troppa polvere da sparo per abbatterli, mentre era
necessaria per continuare la conquista verso sud.

IL DIO GIAGUARO: Gli inizi di una ricerca
Rimanendo in ambito precolombiano, la figura del dio giaguaro compare come un must
dal Rio Colorado sino a Capo Horn. Quando, da ragazzino, studiavo tale figura mi
convinsi della sua valenza primigenia e creativa: basandomi su queste caratteristiche
supponevo che fosse il vestigio di un’antica razza esogena alla terra, ma, dato che
ritenevo la cosa potesse essere un tantino stravagante, la tenni per me, accusandomi
di essere un po’ troppo influenzato dai fumetti dei supereroi.
Cambiai parere quando, non ricordo se nel ’78 o nel ’79, durante una puntata di Bontà
Loro (per i ventenni: questa trasmissione fu il primo talk show del telepiduista coi baffi),
di Maurizio Costanzo, il rimpianto Peter Kolosimo disse la seguente frase:
Nell’attuale America Latina ci sono concordi testimonianze, in ambito Maya,
Azteco ed Inca, che suffragano l’esistenza remota di esseri umanoidi dalle
fattezze di giaguaro o di puma.
La mia esultanza fu grande: un grande ricercatore indipendente ed eterodosso, già
prima di me, affermava tale concetto!
Purtroppo, Costanzo ritenne troppo ridicola (o troppo compromettente) questa
affermazione, non dando agio ad un ulteriore approfondimento. Allo scopo di sfottere lo
studioso e la di lui moglie, pure presente (Caterina Kolosimo, tra l’altro autrice di Graffi
sull’anima), il conduttore massone chiese:
Ma con tutte ‘ste cose che scrivete, la notte come la passate?
Kolosimo rispose placidamente:
Facciamo l’amore
scandalizzando quell’ipocrita che, all’epoca, doveva ancora ubbidire a farisaici ordini di
scuderia.
In Italia il ricercatore che ha maggiormente approfondito lo studio antropologico del dio
giaguaro (per gli Incas il dio puma) è Angelo Morretta in I miti delle antiche civiltà
messicane (Longanesi & C., Milano, 1984), ma in questo caso il punto di riferimento
per tutti gli studiosi è Jacques Soustelle, con Gli Olmechi (Rusconi, Milano, 1982).
Egli, giustamente, dice:
Il giaguaro ed il serpente, due creature che hanno ossessionato la mente degli
indiani della mesoamerica per decine di secoli.
è assolutamente vero, ma c’è anche di più.
Le più antiche raffigurazioni del dio giaguaro sino ad oggi trovate risalgono al periodo
olmeco (la prima vera grande civiltà mesoamericana, a partire dal 1300 a.C., coeva
della civiltà minoico-micenea nel nostro Mediterraneo). Quelle di Chalatzingo, nello
stato messicano di Michoacan, rientrano in un arco di tempo compreso tra il 600 ed il
400 a.C.
Tra i numerosi bassorilievi spiccano i seguenti.
Uno è detto La Signora della Pioggia, su di una superficie di 3,25 per 2,75 metri.
Sinteticamente, raffigura una probabile sacerdotessa di un culto patriarcale seduta su
un trono molto elaborato, sormontato da una spirale doppia (uno dei simboli universali
del movimento e del cosmo). Sul suo capo vi è una chiara raffigurazione (tra le molte
altre della sua corona) dell’albero della vita. Questa severa donna è inscritta nelle
enormi fauci spalancate di un giaguaro.
Un altro bassorilievo, un quadrato di 3 metri per lato scolpito su di una roccia affiorante
dal suolo, è ancora più esplicito. La scena è drammatica: due giaguari maschi balzano
da un bosco, a sinistra dello scenario, su due donne nude e supine, inermi, con le
braccia aperte e le gambe divaricate. I due bestioni sono sospesi in volo, ma il loro
intento è chiaro.
Una raffigurazione, la pittura rupestre nella grotta di Juxtlahuaca (detta Sala rituale),
sita nel vicino stato del Guerriero, è letteralmente scioccante: un uomo in piedi, alto e
slanciato, completamente nero e con una maschera sul viso, è’ colto nell’atto di
violentare un giaguaro rampante e ruggente.
Una statua litica olmeca raffigura un umanoide con denti ed occhi da giaguaro: ha, in
ciascuna mano, un oggetto che Ignacio Bernal y Garcia Pimentel e Jacques Soustelle
hanno definito come un pugnale od un scettro a doppia punta. I due studiosi sono
concordi, però, nell’individuarvi il simbolo della dualità. Questo è un concetto unificante,
entro il quale l’eterno dualismo tra il bene ed il male arriva a comporsi in una stasi
armonica. è una sorta di coincidenza degli opposti (coincidentia oppositorum) tra
l’umano ed il ferino, tra l’umano ed il divino. In tale ambito il dio giaguaro è divinità sia
solare (dato che proviene dal cosmo) che ctonia (perché va vivere sotto terra).
L’immagine che i mesoamericani vogliono comunicare è proprio questa: un dio che
viene dal cielo, ma che sceglie, come dimora, non la superficie terrestre, ma le caverne
ed i sotterranei. Comunque la pregiatissima statua (detta monumento n.10, trovata in
località San Lorenzo, stato di Veracruz, e risalente al 1.200 a.C.) ha, nelle mani, due
oggetti che sono senza dubbio la versione speculare l’uno dell’altro: quello nella mano
destra trova il suo doppio nell’altro tenuto dalla sinistra, e viceversa.
La forza con la quale la creatura stringe i due oggetti dimostra che da questi promana
una grande energia.
Il concetto di dualità, di doppio, ritorna spesso nel mondo mesoamericano. Sulla cima
del grande Tempio Major di Tenochtitlan si trovavano i due tempietti gemelli, uno
dedicato a Huitzilopochtli e l’altro a Tlaloc, il dio della pioggia.
Nella città maya di Tikal, la città dalla doppia acropoli (Guatemala), vi è una visione
surreale, degna di un quadro di De Chirico. Due grandi piramidi, svettanti verso il cielo,
si fronteggiano l’una quasi identica all’altra, infatti vennero denominate El Tigre 1 ed El
Tigre 2, ove tigre è la denominazione popolare del giaguaro.
Dai libri del Chilam Balam emerge il dio giaguaro come entità di comunicazione tra due
mondi, quello de viventi e l’Aldilà, ma un aldilà particolare, però: invece che solo mondo
dei morti è, soprattutto, una dimensione parallela, quella in cui vivono gli dei.
La porta di comunicazione tra i due mondi si chiama Xibalbà.
L’ossessione del doppio è anche la catarsi di un’introiezione di un’altra tipologia duale,
quella individuata nella Casa della Vita da Corrado Malanga?
In una sala sotterranea e segreta del tempio El Castillo di Chichen Itzà (stato dello
Yucatan) venne rinvenuto il magnifico trono di pietra del Giaguaro Rosso.
Il pannello litico n. 26 (724 d.C.) di Yaxchilan (stato del Chiapas) mostra il re Giaguaro
dello Scudo che riceve dalla moglie, la Dama Xok, l’elmetto da guerra, a forma di testa
di giaguaro: per i re mesoamericani era un vanto imprescindibile poter affermare di
discendere direttamente da quel dio.
Nel continente sudamericano, a circa mille chilometri dall’equatore, in una valle andina,
sorge la città di Cuzco, l’antica capitale dell’impero Inca, (che in quechua, la lingua
degli antichi Incas che ancora si parla in quelle terre, significa L’Ombelico del Mondo).
Verso la metà del XV secolo dell’era attuale, il Sapa Inca (che significa il Vero Signore)
Pachacutec (che significa Grande Sconvolgimento) decide di costruire una cinta
muraria intorno alla sua capitale: tale muraglia deve avere la forma del dio dal quale la
sua dinastia ha avuto il potere, la forma di un puma. Questo grande felino, sulla
cordigliera andina, è il corrispettivo del giaguaro messicano. La testa del puma è
rappresentata dalla fortezza-santuario di Sacsayhuaman, su di un’altura a nord della
capitale. Il problema è che ho constatato di persona come sia praticamente impossibile
sovrintendere, dalle alture circostanti, ad un tentativo di erigere una fortificazione così
grande e complessa (testa, tronco e zampe del puma) attorno ad una città tanto vasta.
La prova della sua particolarissima forma è data dalle fotografie aeree e, meglio
ancora, satellitari: l’ovvio ed intrigante problema è che 600 anni fa nessuno aveva tali
mezzi, almeno questo è quanto ci viene insegnato dalla scienza ufficiale.
Su questo aspetto scottante, così come sui megaliti più grandi del mondo, che formano
Sacsayhuaman, tornerò quando affronterò l’impossibilità tecnica di costruire
determinate opere in periodi non tecnologici della nostra storia.
Nel quadretto da me fotografato nel Museo Nazionale del Coricancha, a Cuzco, il dio
puma è subordinato solo a Viracocha, che è la divinità suprema e primordiale; dal dio
puma discende la coppia formata da Manco Capac e da sua moglie, i fondatori della
dinastia regnante.
Viracocha è stato variamente interpretato dagli studiosi: puro spirito o trasfigurazione
del sole, in ogni caso egli è il dio creatore. Ma in quel quadretto esso ha una
raffigurazione certamente strana: è stato disegnato come un oggetto ovoidale
luminescente.
In tutta sincerità, quando lo vidi, nel 2001, pensai ad un tentativo di raffigurare o un
disco volante, oppure uno stargate; dopo avere conosciuto i lavori di Corrado Malanga
aggiungo l’opzione essere di luce.
Un altro elemento che ci può chiarire la valenza del dio felino viene dal Vecchio Mondo,
dall’antico Egitto. Le fonti egizie ci parlano, collocandolo in tempi preistorici o
protostorici, di un chaus, comunemente tradotto come gatto selvaggio, il quale, più
probabilmente, deve essere stato un grande felino simile al coguaro od al leopardo (se
non il leopardo stesso), estinto già in epoca remota.
Questo, e non il gatto domestico, è, logicamente, il Gran Gatto che sta in Heliopolis, di
cui si narra nel Libro dei Morti. Tale antichissima divinità solare proteggeva l’uomo;
essa ottenne la più grande vittoria dilaniando il Serpente del Male, ai piedi dell’Albero
della Vita.
I due erano nemici cosmici.
Ora arrivo ad una conclusione: ricevuta, nella chat di Sentistoria dall’amico Mikk una
preziosa informazione, telefonai al prof. Malanga chiedendogli ulteriori ragguagli sulla
morfologia dei cosiddetti Biondi. Malanga mi rispose che, tempo fa, egli ed i suoi
collaboratori avevano dato ai Biondi l’appellativo di felini, a causa della loro pupilla
verticale, molto simile ad una losanga allungata, che ricordava, di primo acchito,
appunto l’occhio dei felini. Quindi, se una tale ovvia ed immediata associazione di idee
c’è stata presso ricercatori contemporanei, ritengo che, a maggior ragione, sia stata
fatta anche, agli albori della nostra storia, da popolazioni non tecnologiche, che hanno
semplicemente accostato una morfologia aliena a quella dei grandi felini con i quali
erano maggiormente a contatto. Il risultato è stata la creazione di una figura
sovrumana, con fattezze di felino e con l’enorme forza fisica di quell’animale.
Con un ulteriore messaggio: dio puma e dio serpente sono nemici giurati dall’alba dei
tempi.
Lo scopo della loro lotta è il dominio sull’uomo.
Ho constatato di persona che, nell’arte incarica, la raffigurazione della lotta tra questi
due personaggi è una costante durante tutta la storia di quel grande popolo, sia nelle
ceramiche che nelle sculture fittili.
Se a qualcuno viene in mente di scorgervi un duello tra animali della giungla, io gli
faccio notare che si sbaglia: un serpente, sia di tipo stritolatore che velenoso, sceglie
prede prive di zanne e di artigli, cioè prede che possa vincere facilmente.
Lo stesso discorso è valido per il puma ed il giaguaro, i quali cacciano vittime che li
possano satollare senza grandi rischi, quindi più succulente e pasciute dei coriacei e
temibili serpenti.
Da un notevole numero di opere olmeche promana il messaggio di una commistione
tra umano ed umanoide-felino, una manipolazione la quale assume l’aspetto
dell’unione sessuale contro natura che dà origine ad una stirpe ibrida.
Tutte le maggiori nazioni precolombiane sono concordi: il luogo di provenienza degli
antichi dei è il cielo ad Est.
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