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Ultimo Aggiornamento: 03/05/2013 11:30
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27/04/2013 18:02
 
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Articolo di Paolo Brega
Fonte: ufoplanet.ufoforum.it/headlines/articolo_view.asp?ARTICOLO...

Questa avventura inizia alla corte di Salomone, sovrano del regno di Israele intorno al 950 a.C., figlio e successore di Re Davide. Sotto il suo comando il regno si estendeva dal fiume Eufrate fino all’Egitto ed inoltre aveva due alleati molto importanti: il re Hiram, a capo dei Fenici, i grandi navigatori dell’antichità, e la regina di Saba, che dominava un regno esteso nell’attuale Yemen ed Etiopia la cui capitale era Aksum, che gli forniva oro, incenso, profumi e spezie.
Il suo regno viene considerato dagli ebrei come un'età ideale, simile a quella del periodo augusteo a Roma. La sua saggezza, descritta nella Bibbia, è considerata proverbiale. Durante la sua reggenza venne costruito il Tempio di Salomone, che divenne leggendario per le sue molteplici valenze simboliche.


Il regno di Davide ereditato dal figlio Salomone

L’omonimia del Re fenicio Hiram con l’architetto proveniente dalla città di Tiro selezionato da Re Salomone per l’edificazione del Tempio ci lascia pensare che in realtà i due potessero essere la stessa persona.
La Bibbia ci presenta Hiram Abiff come il massimo artista del suo tempo. Famoso nella propria città natale, appunto Tiro, per la magnificenza delle sue opere, onorato ed ammirato dal sovrano per le straordinarie capacità dimostrate nelle arti, fu da questi inviato al potente Re Salomone per la costruzione del grande Tempio, la Casa del Signore. Nessuno meglio di Hiram sapeva lavorare i metalli, egli padroneggiava i segreti dell’Arte, fine intagliatore di pietre e legno aveva accumulato grande esperienza nel governare operai e maestranze.
Sulle conoscenze di navigazione dei Fenici, estremamente avanzate per l’epoca, parleremo in seguito e torneranno utili per indagare sulla ubicazione dei giacimenti auriferi che consentirono al Regno di Israele di diventare una delle più ricche nazioni del tempo durante il regno di Re Salomone, grazie allo stretto rapporto che questi intrattenne con la sua seconda potente alleata: la Regina di Saba. 
La Regina di Saba regnava su un territorio che si estendeva a cavallo tra Africa e penisola arabica, più circostanziabile in Etiopia e Yemen dove recenti ritrovamenti archeologi hanno riportato alla luce quelli che sembrano essere i resti dei palazzi del fastoso regno della consorte di Re Salomone dove forse si cela uno dei manufatti più preziosi e misteriosi della storia ebraica: l’Arca dell’Alleanza.
Gli arabi la conoscevano come la regina Bilquis, gli etiopi la chiamavano Macheda, per gli ebrei e i cristiani è la regina di Saba. La regina venne a conoscenza della fama di Salomone e si recò a Gerusalemme per conoscerne la saggezza. Arrivò con un gran seguito e con cammelli carichi di spezie. La storia della regina di Saba probabilmente ha origini giudee, ma esiste anche una versione persiana, la troviamo anche nel Corano difatti gli arabi affermano che credesse nella grandezza di Halla.
Dalla visita a Gerusalemme, avvenuta tra il 1000 ed il 950 a.C. vi è menzione nel Talmud ebraico, nella Bibbia - Antico Testamento, nel Corano ed ovviamente nel Kebra Nagast, Gloria dei re che è il libro fondamentale per la storia dell'impero degli altopiani, elaborato in Etiopia nel XIV secolo, ed uno dei testi sacri del movimento Rastafariano.
Il mito della Regina di Saba si mescola con la leggenda della città perduta di Ubar. Conosciuta anche come “Iram delle Colonne”, Aran o Ubar, si trovava nella Penisola Arabica ed era una città mercantile edificata nel deserto del Rub’ al Khali, il più grande deserto di sabbia del mondo.
La tradizione narra che la città sopravvisse dal 3000 a.C. fino al I secolo d.C., arricchendosi anno dopo anno grazie a un florido commercio; successivamente se ne persero completamente le tracce, forse perché, come ricorda il Corano, subì la stessa punizione della tribù dei Banu ‘Ad, una stirpe araba vissuta durante il periodo pre-islamico che osò sfidare Allah innalzando alti edifici in pietra e che per questo venne punita prima con un tremenda siccità, poi da una violenta pioggia seguita da un fortissimo vento che distrusse tutti i loro edifici; una storia peraltro simile sotto certi aspetti alla condanna divina conseguente al tentativo della costruzione della Torre di Babele così come narrato nella Bibbia.
Le rovine della Città delle Mille Colonne si troverebbero ancora sotto le sabbie del deserto, dimenticate anche dal tempo. Questa storia rimase una delle tante tradizioni orali raccontate intorno al fuoco, almeno fino a quando non giunse in Occidente in seguito alla traduzione del famoso “Le mille e una notte”. Durante il II secolo d.C., Claudio Tolomeo, astronomo e geografo greco, disegnò la mappa di una misteriosa regione che, a suo dire, era abitata da un altrettanto enigmatico popolo, gli Ubariti, ovvero gli antichi abitanti di Ubar.
In tempi più recenti il tenente colonnello Thomas Edward Lawrence, meglio conosciuto ai più come Lawrence d’Arabia, mostrò spesso un notevole interesse per questa città, che lui stesso definiva come l’Atlantide delle Sabbie.
Ed effettivamente da sotto le sabbie del deserto yemenita a volte compaiono resti di civiltà perdute. Quando il vento sposta le dune, talvolta appaiono ai beduini momentanei scorci di mura e fondazioni sepolte, subito nuovamente coperti dal tempo e da altra sabbia. Le voci che parlavano dell’esistenza di un gran muro hanno portato gli archeologi a scoprire un enorme complesso, che si è rivelato il più segreto e misterioso sito del Medio Oriente. Un gran muro in pietra alto circa 20 metri, con 5 metri di spessore, forma un ovale che protegge un ampio cortile che deve ancora essere scavato. Sul muro c’è una miriade di simboli che non si sa (ancora) come tradurre. Il sito archeologico si trova in Mareb, Yemen, in quella che è conosciuta come la "zona vuota". Si tratta di un territorio asciutto e desolato, con dune di sabbia e chilometri di deserto.


Sito archeologico nel Mareb e i simboli ritrovati sul muro
I resti del Palazzo della Regina di Saba?

Simboli simili compaiono su uno tra i più misteriosi ma meno conosciuti reperti dell’archeologia israeliana che consiste in un semplice coccio di terracotta. Un archeologo israeliano sostiene che le cinque righe presenti su questo coccio potrebbero rappresentare il più antico esempio di scrittura ebraica mai scoperto. Il frammento è stato trovato da un adolescente, che scavava come volontario, circa 20 km a sud–ovest nel sito di Khirbet Qeiyafa, che domina la valle di Elah, dove la Bibbia dice che l’ebreo Davide, padre di Salomone, combatté contro il gigante filisteo Golia. Esso contiene segni ritenuti di un antico alfabeto, chiamato proto–cananeo o Prima Lingua.


Il coccio di terracotta

Esperti della Hebrew University hanno detto che è stato scritto 3000 anni fa – circa 1000 anni prima dei rotoli di Qumran. L’epoca corrisponde grosso modo al momento del primo tempio, dominato dalle figure bibliche di Davide e Salomone, e pre–daterebbe lo stesso alfabeto, usato anche dalla Regina di Saba (presumibilmente sposata a Salomone), in quello che ora si chiama Yemen. Gli scritti trovati nello Yemen in questo stesso alfabeto e le loro traduzioni in ebraico antico indicavano il nascondiglio dell’Arca di Mosé in un sito vicino a Mareb (Ma'rib, nell’antico regno di Saba).
L’uso di questa lingua, all’inizio della storia dell’ebraico, spiegherebbe il motivo per cui la stessa era utilizzata anche nell’antico regno di Saba. Nella leggenda, e nel Santo Corano, si ipotizza che la regina di Saba fosse stata invitata a visitare il re Salomone, che si fossero sposati e avessero avuto un figlio, Menelik. Ulteriori ricerche condotte da Gary Vey e John McGovern hanno portato alla recente scoperta del presunto palazzo della regina, nel Mareb, Yemen, con iscrizioni nello stesso alfabeto, che descrivono il trasferimento della famosa Arca dell’Alleanza a quel sito da parte del figlio di Salomone, in seguito alla distruzione di Gerusalemme. Entrambi Vey e McGovern credono che sino ad oggi l’Arca sia rimasta nello Yemen.
I risultati del lavoro di traduzione di Vey hanno rivelato una prosa che descriveva la "cassa di El" e parlava di un "figlio" e di un "padre". Vey successivamente apprese che questo era un riferimento all’Arca, a Salomone e al figlio di Saba, Menelik, e per il "padre" – a Salomone stesso. 
Egli legge l’iscrizione come segue:

"... perché il figlio era consapevole della natura che era in lui ... ma la felicità del figlio fu avvelenata dalla notizia che suo padre stava morendo, la rabbia crebbe, ma al figlio fu rivelata da suo padre la collocazione della grande cassa di EL. E l’azione di grazia del bel Signore rese felice il figlio, che giurò di proteggere la cassa di EL, e di essere associato con lo spirito del Signore.”

Il sito purtroppo si è trasformato in un pericoloso avamposto d’estremisti dal settembre 2001 e nessun ulteriore intervento è stato possibile.
La Bibbia lascia intendere che il Regno della Regina di Saba fosse oltre modo ricco di oro visto che faceva confluire ogni anno nelle Casse di Re Salomone ben 666 talenti d’oro equivalenti a poco meno di 20 tonnellate.
Due archeologi italiani, Alfredo e Angelo Castiglioni, avrebbero localizzato le miniere di re Salomone dalle quali proveniva l'oro regalatogli dalla regina di Saba. L'importante scoperta è in Etiopia ma è stata resa nota oggi, a Rovereto, durante l'ultima giornata della XXI Rassegna internazionale del Cinema Archeologico. Secondo i due archeologi non vi è ancora la certezza, ma tutti gli indizi sembrano portare in questa direzione.

"Abbiamo compiuto cinque missioni, tra il 2004 e il 2008, per cercare le antiche zone di estrazione - hanno raccontato i due studiosi - Le prime tre, nel Beni Shangul (Etiopia sud occidentale), fruttarono la scoperta di enormi zone aurifere, sfruttate nell’antichità; ancora oggi vi si lavora con gli stessi metodi e utensili di allora, e alcune profonde gallerie sono tutt'ora chiamate dalla gente locale 'le antiche miniere di re Salomone'".

Ma un’altra ipotesi, ancora più affascinante, vede l’origine di tutto quell’oro in una regione distante migliaia di kilometri dall’Etiopia e dallo Yemen, addirittura al di là dell’Oceano Atlantico coinvolgendo i Fenici e le conoscenze da questi ottenute dall’eredità di uno dei popoli più misteriosi della storia e della regione medio-orientale: i Sumeri.
Sappiamo già come l’opera più importante del re Salomone fu la costruzione del Tempio di Gerusalemme, dove era depositata l’Arca dell’Alleanza, contenenti le tavole della Legge, che secondo la tradizione erano state consegnate direttamente da Jehova a Mosè.
Per costruire il Tempio di Gerusalemme, Salomone aveva bisogno di una quantità spropositata d’oro e argento abbiamo visto in gran parte ottenuti grazie all’alleanza con la Regina di Saba. Secondo il Libro dei Re nella Bibbia, la provenienza dei preziosi metalli era da ricercarsi nel leggendario paese di Ofir. Le   flotte mercantili comandate da esperti navigatori Fenici partivano dal Mar Rosso o dai porti fenici del Mediterraneo e tornavano indietro dopo tre anni di navigazione, ricolme d’oro, argento, pietre preziose e profumi.
Molti storici hanno tentato di ubicare questo mitico paese in Africa o in India, ma la tesi che vogliamo approfondire oggi è quella di Benito Arias Montano che colloca il mitico Regno di Ofir al di là dell’Oceano Atlantico e più precisamente in Perù, anche se fino ad oggi non vi sono state prove esaustive sulla sua ubicazione.
A conferma di questa ardita teoria viene in nostro soccorso la ricerca portata avanti dal ricercatore indipendente Yuri Leveratto. Yuri Leveratto è un ricercatore indipendente con al suo attivo diverse spedizioni in Sudamerica e diverse pubblicazioni tra cui “Cronache indigene del Nuovo Mondo”. Con questo libro, che è una ricompilazione di settanta suoi articoli, l’autore ha voluto fornire una ampia visione dell’affascinante storia dei popoli autoctoni del Nuovo Mondo, dai primordi fino ai giorni nostri. Il suo lavoro è stato fondamentale per noi per approfondire i collegamenti esistenti tra il mondo medio-orientale e quello sud-americano migliaia di anni fa.
Uno dei primi sostenitori della teoria della presenza antica dei Fenici in Brasile fu il professore di storia austriaco Ludwig Schwennhagen (XX secolo), che nel suo libro “Storia antica del Brasile”, citava gli studi di Umfredo IV di Toron (XII secolo), che a sua volta aveva descritto i viaggi di navi fenicie fino all’estuario del Rio delle Amazzoni.
Come sappiamo, sono varie le evidenze archeologiche e documentali su una possibile antica presenza dei Fenici (o Cartaginesi), in Brasile: la pietra di Paraiba, i pittogrammi della Pedra de Gavea e i petroglifi della Pedra do Ingà, oltre al misterioso documento 512.
Vi è, però un’altra evidenza archeologica che suggerisce una possibilità sulla probabile coincidenza della terra di Ofir con l’Alto Perù: l’esistenza di un antico e lunghissimo cammino, detto in portoghese “Caminho do Peabirú”, che dalle attuali coste dello Stato di San Paolo e Santa Catarina (Brasile), conduce, dopo circa 3000 chilometri, proprio fino a Potosì, e prosegue fino a Tiahuanaco e Cusco.
Già da vari anni alcuni archeologi e ricercatori indipendenti brasiliani stanno studiando un antico cammino, conosciuto con il nome di “Peabirù” che nella lingua Tupi Guaranì, significa “cammino d’andata e ritorno”. Secondo l’interpretazione di Yuri Leveratto, siccome in lingua Guaranì “pe” significa “sentiero” e Birú era l’antico nome con il quale veniva identificato il Perú, non è un azzardo considerare il nome “Peabirú” come “cammino al Perú”.
Questo è un sentiero, largo circa 1,4 metri, che origina dalla zona di San Vicente nell’attuale Stato di San Paolo e dalla costa di Santa Catarina, in particolare dalla baia conosciuta con il nome di Cananea, durante l’era delle scoperte geografiche. I due tronchi si uniscono presso l’attuale Stato del Paraná, per procedere fino all’attuale frontiera con la Bolivia, presso la città di Corumbá. Quindi, dopo aver attraversato le praterie del Chaco, il cammino si dirige a Potosí.



In realtà il sentiero prosegue, dividendosi in due rami: uno va verso Oruro, Tiahuanaco e poi Cusco, mentre un altro ramo si dirige verso l’Oceano Pacifico, nell’attuale Cile settentrionale. In pratica il cammino del Peabirú si interconnetteva con i sentieri incaici dell’impero che a loro volta univano Samaipata, la fortezza inca ubicata più a Sud (attuale Bolivia), con il Cusco e con altri siti “misteriosi” delle culture andine.
L’esistenza dell’antico cammino del Peabirù è importantissima, perché prova che era possibile raggiungere nell’antichità il Cerro Rico di Potosì che ricordiamo essere la montagna più ricca d’argento del mondo, dalle coste del Brasile, con un viaggio di circa 2 mesi.
L’interrogativo che ci appassiona è chi furono gli ideatori e i costruttori di questi percorsi?
I membri dell’etnia Guaraní attribuiscono la costruzione del cammino al loro leggendario semi-dio Sumé, che fu un civilizzatore e colonizzatore vissuto prima del diluvio, il quale insegnò ai Guaraní l’agricoltura, l’artigianato e impose loro i fondamenti del diritto in modo del tutto simile a quanto narrato dai popoli andini relativamente al dio Viracocha.
Come non riscontrare in tutto ciò la forte analogia con il processo di “Rinascita” perpetuato dal dio Anunnaki Enki, che secondo quanto affermato nelle ricerche del Progetto Atlanticus coinvolse in primis l’area medio-orientale fin dalla fine della glaciazione di Wurm circa dodicimila anni fa sugli altopiani iranici e caucasici partendo proprio dalle pendici del monte Ararat su cui si arenò Noè e la sua “Arca” e dove giustappunto sorgono le città di Gobekli Tepe e Kisiltepe?



Se le due cose sono collegate allora forse il cammino del Peabirù potrebbe essere considerato come uno dei tanti resti di una civiltà antidiluviana riutilizzato in seguito dai depositari di determinate conoscenze, diciamo esoteriche, tramandate dagli antichi dei civilizzatori (Enki, Viracocha, Sumè, etc.etc.) ai popoli loro prediletti: Sumeri, Fenici, Egizi, Ebrei.
Questo rafforza l’ipotesi, sostenuta peraltro dal noto e compianto archeologo boliviano Freddy Arce, che   il cammino del Peabirú potrebbe essere stato usato successivamente, seppur in tempi remotissimi dai popoli del Medio Oriente, come per esempio i Sumeri (da cui deriverebbe la parola Sumè), ed in seguito dai Fenici e Cartaginesi, per inoltrarsi all’interno del continente e raggiungere così la miniera d’argento più grande del pianeta forti appunto di quelle conoscenze di cui al paragrafo precedente.
Sappiamo inoltre che i reperti che richiamano alle culture Medio-Orientali sono diversi in Sud America, come il Monolite di Pokotia e il Fuente Magna, il grande vaso cerimoniale di pietra trovato presso il lago Titicaca, all’interno del quale vi sono iscrizioni in lingua sumera. 


La Fuente Magna e il Monolite di Pokotia – prove di presenza Sumera in Sudamerica

Secondo la versione ufficiale il vaso fu scoperto in Bolivia nel 1960, da un contadino, in un terreno privato che si dice sia appartenuto alla famiglia Manjon, situato a Chua, circa 80 chilometri da La Paz, nelle vicinanze del lago Titicaca. Nella parte esterna il vaso riporta alcuni bassorilievi zoomorfi (di origine Tihuanacoide), mentre nell’interno, oltre a una figura zoomorfa o antropomorfa (a seconda dell’interpretazione), vi sono incisi due tipi di differenti scritture, un alfabeto antico, proto-sumerico, e il quellca, idioma dell’antica Pukara, civiltà antesignana di Tiwanaku.
Un ulteriore elemento di prova ci viene fornito dal cosiddetto “Manoscritto 512” un documento inedito risalente al 1753, ma ritrovato solo nel 1839, conservato nella Biblioteca Nazionale di Rio de Janeiro nel quale viene descritta la rocambolesca avventura di un gruppo di esploratori portoghesi alla ricerca delle leggendarie miniere di Muribeca, durante la qual ricerca scoprirono le rovine di una grande città perduta, la cui architettura ricordava lontanamente lo stile greco-romano e dove furono ritrovate delle iscrizioni che furono ricopiate dagli esploratori nel documento.



Secondo altri ricercatori l’alfabeto utilizzato nelle iscrizioni del “manoscritto 512” potrebbe essere il punico, il fenicio antico o l’aramaico antico. 
Non deve fare meraviglia che i libri di storia non menzionino questo documento. Se la notizia di una grande città antica di origine pre-greca fosse stata divulgata, i termini del trattato di Madrid avrebbero potuto essere rivisti in quanto sarebbe stata provata la colonizzazione e permanenza di un popolo del Mediterraneo o del Medio-Oriente in Brasile nei secoli o millenni passati e sarebbe caduto pertanto lo ius possidentis del Portogallo sulle terre brasiliane.
Se a questi reperti aggiungiamo il petroglifo di Ingà di chiara origine pre-fenicia, il tesoro della Cueva di Los Tayos alla cui ricerca partecipò nientemeno che l’astronauta recentemente scomparso Neil Armstrong, possiamo affermare con ragionevole certezza che l’esistenza del Nuovo Mondo era perfettamente conosciuta ai Fenici e ai Cartaginesi che già circumnavigarono l’Africa nel I millennio prima di Cristo e che le loro conoscenze derivavano proprio dai Sumeri. 
E’ noto che i Sumeri navigavano sulle loro imbarcazioni attraverso i canali del Tigri e dell’Eufrate allo scopo di commerciare. E’ invece poco conosciuta la navigazione marittima dei Sumeri, che avevano come base l’attuale isola di Bahrein, dove recenti scavi hanno dimostrato l’esistenza di un porto commerciale che era in attività nel terzo millennio prima di Cristo. Nei testi Sumeri l’odierno Bahrein era identificato come Dilmoun, e da quel punto le flotte sumere partivano per la foce dell’Indo da dove rimontavano il grande fiume, giungendo a Mohenjo-Daro, per intercambiare tessuti, oro, incenso e rame. Le imbarcazioni sumere erano lance che potevano dislocare fino a 36 tonnellate. 
Secondo Bernardo Biados i Sumeri circumnavigarono l’Africa già nel terzo millennio prima di Cristo, ma, arrivati presso le isole di Capo Verde, si trovarono sbarrato il passaggio dai venti contrari che soffiano incesantemente verso sud-ovest. Si trovarono pertanto obbligati a fare rotta verso ovest, cercando venti favorevoli. Fu così che giunsero occasionalmente in Brasile presso le coste dell’attuale Piauì o Maranhao. Da quei punti esplorarono il continente risalendo gli affluenti del Rio delle Amazzoni, in particolare il Madeira e il Beni o percorrendo il già citato "Cammino del Peabirú".
In questo modo arrivarono all’altopiano andino, che probabilmente nel 3000 a.C. non aveva un clima così freddo. Si mischiarono così alle genti Pukara che a loro volta provenivano dall’Amazzonia (espansione Arawak), e ai popoli Colla (i cui discendenti parlano oggi la lingua aymara). La cultura Sumera influenzò le genti dell’altopiano, non solo dal punto di vista religioso, ma anche lessicale. Molti linguisti infatti hanno trovato molte similitudini tra il proto-sumerico e l’aymara. 
Una storia che si mescola con la leggenda di Akakor, perduto regno antidiluviano fiorente sulle rive del bacino del Rio delle Amazzoni, salito agli onori della cronaca grazie al preziosissimo contributo del colonnello Percy Fawcett, esperto coloniale e cartografo della Società Cartografica Britannica. Appassionato esploratore e cultore delle civiltà del passato, raccoglie dagli Indios delle varie tribù, tradizioni orali e leggende stupefacenti. Lo studio accurato che il colonnello ha fatto di tutto il materiale raccolto, lo porta alla conclusione che tutti i miti testimoniano l’origine divina di tutti quei popoli.
Viene in possesso, inoltre, d’indicazioni e strani racconti su enormi abbandonate e misteriose città, che lo portano a viaggiare in lungo e in largo della giungla del Sud America, sino quando, a Rio, ebbe modo di consultare il Manoscritto dei Bandeirantes, conservato nel Museo locale dell’Indio; ispirato dal documento decide di intraprendere una spedizione nel Mato Grosso alla ricerca della fantastica città perduta. Tenta più volte senza successo, sino a quando Fawcett e' sicuro di avere in mano le indicazioni decisive e l’orientamento esatto per la rivoluzionaria scoperta. Parte con pochi uomini fidati, ma la sua marcia viene seguita sino alla metà del percorso da lui previsto, poi scompare nella foresta vergine e di lui non si sa più nulla. Era il 1925.



Il regno di Akakor fu forse una delle nazioni antidiluviane di cui serbiamo il ricordo di Atlantide, artefice di tutte le incredibili strutture megalitiche del continente sudamericano come Tiahunaco, Machu Picchu, Cuzco, la Città di Caral, etc.etc. così come la rete viaria sfruttata dall’impero inca migliaia di anni dopo di cui il Peabirù o cammino del Perù né rappresenta un segmento? Noi onestamente pensiamo di sì. 
Così come pensiamo che il retaggio di queste civiltà antidiluviane sia giunto attraverso i sumeri ai popoli medio-orientali, Egizi, Fenici, Etiopi-Yemeniti (Saba) ed Ebrei compresi i quali sfruttarono queste loro conoscenze per scopi commerciali.
Ma il nostro Salomone, da dove questa nostra avventura ha avuto inizio, non ottenne soltanto oro e argento dallo sfruttamento commerciale di queste antiche rotte.
In un nostro precedente articolo abbiamo affrontato il tema dello Shamir, potente oggetto, presumibilmente tecnologicamente avanzato, che compare in numerosi midrash ebraici tra i quali uno che fa riferimento proprio al Re del nostro articolo. 
il midrash che parla dello Shamir riporta che, per la costruzione del Tempio, Salomone aveva dato ordini molto precisi. Secondo la Legge mosaica, Legge divina, nessun materiale facente parte del Tempio doveva essere lavorato con attrezzi di ferro, il metallo di cui son fatte le armi che portano morte, evitando così di contaminare la sacralità del luogo. 
L'altare, soprattutto, non doveva essere profanato in nessun modo da quel contatto, e nel cantiere non doveva entrare nemmeno un chiodo; né tanto meno martelli, scalpelli, picconi o altro. Tanto è vero che il materiale da costruzione - o almeno, sicuramente, la pietra - era arrivato sul posto già squadrato, se non rifinito, di modo che durante i lavori "non si udì nel Tempio nessun rumore prodotto da utensili metallici". L'unica maniera alternativa di lavorare la pietra senza impiegare strumenti di ferro era quella di usare il "magico Shamìr". Dio stesso, secondo la tradizione, l'aveva consegnato a Mosè sul Sinai, il quale se ne era servito per incidere i nomi delle dodici tribù sulle pietre incastonate nel pettorale e nell'"efòd" che facevano parte dei paramenti del Sommo Sacerdote. Da allora però lo Shamìr era sparito e non si sapeva più che fine avesse fatto.
Lo Shamìr venne inoltre usato per tagliare le pietre con cui fu costruito il Tempio, perché la legge proibiva di usare per quest'opera strumenti di ferro così come possiamo leggere nel Talmud e nell’ambito della letteratura midràshica. Forse la tecnologia dello Shamir è la stessa che venne usata in epoca antidiluviana per lavorare e tagliare altre pietre… gli enigmatici blocchi H di Puma Punku.
Inoltre, sempre dalle stesse fonti, sappiamo che lo Shamìr non può essere conservato in un recipiente chiuso di ferro o di qualunque altro metallo, poiché lo farebbe scoppiare, forse a causa dell’emissione di gas o di calore derivante da una possibile radioattività dell’elemento. Radioattività che giustificherebbe i malanni di Re Salomone e di Re Davide dopo l’utilizzo dello Shamir e della elevata mortalità di coloro che lo maneggiava per più tempo senza probabilmente le dovute precauzioni.
Altre incredibili applicazioni dello Shamir sono descritti nel racconto di come Salomone riuscì a impossessarsi dello strumento in oggetto. Il dèmone Asmodeo il quale conosce l’ubicazione di tutti i tesori nascosti, fu costretto a rivelare al re che Dio aveva consegnato lo Shamìr a Rahav, l'Angelo (o il Principe) del Mare, il quale non lo affidava mai a nessuno se non, raramente e solo a fin di bene, al gallo selvatico, il quale viveva lontano, ai piedi di montagne mai esplorate dall'uomo: questi se ne serviva per "forestare" intere colline nude e pietrose, producendovi - per mezzo dello Shamìr - innumerevoli forellini, nei quali poi piantava semi di varie piante e di alberi. Ciò veniva fatto nell'imminenza della migrazione di gruppi tribali divenuti troppo numerosi, che più tardi, arrivando sul posto, avrebbero trovato un ambiente vivibile.
Come non collegare a questa descrizione le migliaia di buche delle dimensioni di un uomo scavate nella nuda roccia    vicino a Valle Pisco, Perù, su una pianura chiamata Cajamarquilla. Questi strani buchi (pare 6900), si estendono per circa 1450 mt in una banda larga approssimativamente 20 mt di terreno montuoso e    irregolare e sono stati qui da così tanto tempo che le persone non hanno idea di chi li ha fatti e perché.


Valle Pisco, Perù

Questo avvalora l’incredibile ipotesi che gli Egizi o comunque qualcuno prima di loro, sia riuscito a raggiungere il Sudamerica, dando origine alle prime civiltà mesoamericane. Gli studiosi hanno stabilito che il giorno uno del calendario olmeco era coincidente con il 13 Agosto 3113 a.C., data della nascita della civiltà olmeca, evento straordinario per tutte le civiltà dell'America Latina al pari dell’anno zero del calendario cristiano. Ma il 3113 a.C. indica per la precisione la data esatta dell'esilio di Thoth e dei suoi seguaci africani dall'Egitto per mano di suo fratello Ra, verso i confini del mondo per la colonizzazione di nuove terre.
Presenza di egiziani in Sudamerica che giustificherebbero le forti similitudini a livello architettonico e culturale tra le civiltà pre-colombiane, Maya in primis, e l’antico egitto di cui le piramidi ne rappresentano l’esempio più eclatante. Qualcosa di più di una semplice teoria secondo alcuni approfonditi studi che desideriamo condividere con i lettori.
Esiste infatti una serie di geroglifici risalenti ad epoche diverse che si riferiscono a un paese non meglio identificato e denominato come Punt dove alcuni faraoni inviarono delle spedizioni; la prima di cui si abbia notizia è quella ordinata dal faraone Sahura della V dinastia. Il Punt doveva essere una terra ricca di risorse e di materiali preziosi visto che le iscrizioni parlano di navi cariche di oro, argento, spezie e ogni sorta di ricchezza tra cui anche animali e piante rare come i leopardi e, presumibilmente, anche cocaina e tabacco, delle cui piante sono state rinvenute tracce nelle tombe di alcuni faraoni.
L’ultima a inviare spedizioni nel Punt fu la regina Hatshepsut alla cui morte Tutmosi III cancellò, come era consuetudine, ogni traccia del passato del precedente sovrano, e con esse i riferimenti al Punt e alla sua ubicazione.
La cosa interessante di questa ricerca è che, per volere del faraone, i lavoratori inviati nel Punt dovevano essere “… del paese dei Tebani…”, ovvero provenienti dalle culture nubiane dell’attuale Sudan dominate dall’Egitto caratterizzate da una popolazione con caratteristiche somatiche negroidi. Questi schiavi nubiani sarebbero poi stati lasciati in Sudamerica per alleggerire le imbarcazioni egizie di ritorno in Egitto dando origine alla cultura olmeca il che giustificherebbe il ritrovamento di monumentali teste olmeche dalle fattezze tipicamente negroidi, forse scolpite in onore dei primi rappresentanti della civiltà olmeca.


Teste olmeche

Un percorso logico che sostanzialmente ripercorre le rotte di schiavi durante il periodo coloniale di epoche storiche molto più vicine temporalmente a noi.   
Gli Olmechi ebbero una importanza fondamentale nello sviluppo e nell’evoluzione degli aspetti culturali e religiosi delle civiltà mesoamericane precolombiane, Maya in primo luogo, alle quali trasmisero le loro conoscenze ereditate dal dominio egizio in terra nubiana, strutture piramidali comprese.
E’ inoltre testimoniata dai primi esploratori spagnoli e portoghesi durante la conquista coloniale del Sudamerica nel XVI secolo la presenza di tribù indigene composte da individui di pelle nera all’interno della foresta, probabilmente discendenti regrediti allo stato preistorico dei primi schiavi egizi, fondatori della cultura Olmeca. 
L’ultima prova a supporto di questa teoria che voglio citare, consapevole dell’esistenza di molte altre non affrontate in questa sede è rappresentata dai tre calendari Olmechi, il più noto è quello definito di Conto Lungo che prevede il via da un Enigmatico Giorno Uno (il nostro equivalente di avanti e dopo Cristo, evento straordinario per i cristiani segnato dalla nascita di Gesù di Nazareth.) Gli studiosi hanno stabilito che il Giorno Uno era coincidente con il 13 Agosto 3113 a.C. quale data di nascita della civiltà olmeca, evento straordinario per tutte le civiltà dell'America Latina. 
Ma il 3113 a.C. "stranamente" segna per la precisione la data esatta dell'esilio di Thoth e dei suoi seguaci (africani) dall'Egitto per mano di suo fratello Ra (inizio del regno dei faraoni), verso i confini del mondo per la colonizzazione di nuove terre: solo una straordinaria coincidenza?
Proprio quel Thoth, depositario dei segreti di una civiltà madre pre-esistente a quelle storicamente conosciute e direttamente collegata ai miti inerenti la civiltà di Atlantide quale super potenza globale tecnologicamente avanzata, secondo il Progetto Atlanticus di derivazione Anunnaka.
E volete conoscere la sorte del manufatto più prezioso dell'America Latina, ovvero un elefantino che attribuisce i veri natali alle civiltà americane? Misteriosamente sparito, insieme ai calendari originali Olmechi incisi su tre colonne a Veracruz.
La conclusione di questo lungo percorso che ci ha portato ad affrontare diverse tematiche spesso affrontate dalla storiografia ufficiale come non collegate fra di loro è sempre la stessa. Ovvero che la storia così come la conosciamo probabilmente è da riscrivere.
Così come, alla luce di queste scoperte, andrebbe rivista la storia di un navigatore genovese (?) che per buscar el levante por el ponente si ritrovò in terre sconosciute secondo la storia… ma questo sarà oggetto di un altro articolo del Progetto Atlanticus.
03/05/2013 11:30
 
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PRE-CONTATTI TRA IL MEDIO ORIENTE E IL SUD AMERICA

Articolo di Yuri Leveratto
Fonte: www.yurileveratto.com/it/articolo.php?Id=355

Secondo la Storia accademica non esistettero contatti tra i popoli del Medio Oriente e quelli del Nuovo Mondo nell’antichità.
Le evidenze di un antico contatto tra questi due mondi, separati dall’Oceano Atlantico, sono però tali e tante che, a mio parere si può parlare di un pre-contatto, che però non fu ufficializzato e divulgato alle masse, come durante la spedizione di Cristoforo Colombo, ma rimase occulto, e solo le elite del tempo poterono avvantaggiarsi di alcuni segreti, come per esempio l’ubicazione di miniere (vedi il mio articolo sulla terra di Ofir), e l’utilizzo di alcune piante medicinali.



In alcuni miei articoli ho analizzato la possibilità che il pre-contatto sia stato reale, sia studiando alcuni petroglifi (come nel caso della Pedra de Ingà), sia analizzando alcuni manufatti (come nel caso della Fuente Magna o il Monolito di Pokotia), sia approfondendo alcuni casi controversi di Storia recente (come nel caso della biblioteca metallica del Padre Carlo Crespi), sia esaminando antichi sentieri che dalla costa del Brasile portano nell’interno del continente (come nel caso del cammino del Peabirù).
C’è, però un’altra prova, molto importante, che questa volta fu trovata non in America del Sud ma in alcune mummie egizie.
Come sappiamo la pianta della coca (erytroxylon coca), è originaria del Sud America e non cresce in nessun altro ambiente.
Nemmeno nel Messico tropicale questa pianta attecchisce, tanto che i narcotrafficanti devono per forza importarla dal Sud America. All’interno della foglia di coca, vi è un alcaloide, detto cocaina (da non confondersi con la droga chimica detta anch’essa cocaina).
Conosciamo l’uso tradizionale e ancestrale che i popoli indigeni del Sud America fanno della foglia di coca: la masticano e ne ottengono un effetto stimolante e anestetizzante.
Secondo la storia accademica questa pianta era sicuramente sconosciuta al di fuori del Sud America prima del 1492.
Com’è possibile pertanto che siano state trovate tracce dell’alcaloide cocaina in alcune mummie egizie risalenti ad epoche comprese tra il 1070 a.C. e il 395 d.C.?
La scoperta, che fu effettuata dalla scienziata tedesca Svetlana Balabanova nel 1990, ha inderogabilmente provato che nelle mummie egizie presenti nel museo di Monaco e anche in altre mummie egizie conservate in Sudan, sono presenti tracce di cocaina e anche di nicotina (tabacco, nome scientifico: nicotiana tabacum).
Sappiamo che anche il tabacco è una pianta endemica del Sud America, e pertanto sorge la domanda: come è possibile tutto ciò?
Per i resti di nicotina è stata avanzata l’ipotesi che alcune piante simili al tabacco si coltivassero in Asia e Africa in tempi antichi, mentre per il caso della coca, non c’è spiegazione.
L’alcaloide della cocaina è stato poi trovato in 71 scheletri umani rinvenuti in Nubia, risalenti ad un periodo compreso tra il 600 d.C. e il 1100 d.C.
Può essere questa una prova definitiva del contatto tra i popoli del Medio Oriente (in questo caso dell’antico Egitto), e quelli del Sud America?
Gli scettici hanno portato innumerevoli teorie per sostenere che il ritrovamento della studiosa Balabanova non debba essere considerato come una prova del pre-contatto: hanno sostenuto che le mummie furono contaminate, e che le prove non furono condotte con metodi scientifici, il che non corrisponde alla verità.
Alcuni hanno sostenuto che le mummie analizzate erano dei falsi, ma anche ciò è stato confutato. La maggioranza degli scienziati accademici ha però contestato la scoperta della Balabanova solo per il fatto che un contatto tra antichi Egizi e popoli del Sud America è per loro impossibile, e pertanto lo scartano a priori.
A mio parere i resti dell’alcaloide cocaina, ritrovati nelle mummie egiziane è una delle prove che il continente americano (in questo caso il Sud America) era conosciuto dai popoli del Medio Oriente, che vi viaggiavano per intercambiare prodotti con alcuni popoli indigeni.
Certo, questi viaggi non erano resi pubblici, ma tenuti in segreto.
Le rotte per raggiungere l’America del Sud erano gelosamente custodite e non venivano divulgate, ma al contrario queste conoscenze erano riservate a pochi, solo alle elite del tempo.
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