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Lo Shamir e gli scalpelli di luce divina

Ultimo Aggiornamento: 20/09/2012 08:10
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20/09/2012 08:10
 
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Articolo di Paolo Brega
Fonte: ufoplanet.ufoforum.it/headlines/articolo_view.asp?ARTICOLO...

Chiunque abbia una certa dimestichezza con la paleoarcheologia di certo conoscerà diversi siti archeologici risalenti, secondo la storiografia ufficiale, a un tempo in cui l’uomo iniziava a scoprire i segreti della metallurgia, della lavorazione del rame e successivamente del bronzo. Addirittura alcuni di questi siti risalgono a una preistorica età della pietra.
Il luogo e il tempo dell'invenzione del bronzo sono controversi. è possibile che la metallurgia del bronzo fosse stata inventata indipendentemente nella cultura Majkop del Caucaso settentrionale, risalente alla metà del IV millennio a.C., il che farebbe di loro i fabbricanti del bronzo più antico mai conosciuto, ma altri datano gli stessi reperti della cultura Majkop alla metà del III millennio a.C.
Tuttavia, questa cultura aveva soltanto il bronzo d'arsenico, una lega che si trova già allo stato naturale. Il bronzo di stagno, che si sviluppò più tardi, richiede tecniche più sofisticate di produzione: lo stagno deve essere estratto dalla miniera, principalmente come cassiterite, minerale dello stagno e fuso separatamente, aggiunto dunque poi al rame liquefatto per formare la lega del bronzo.
In Mesopotamia l'età del bronzo inizia verso il 2900 a.C., nel tardo periodo di Uruk, abbracciando l'antico periodo dinastico di Sumer, l'Impero accadico, i periodi antico babilonese e antico assiro e il periodo dell'egemonia cassita. Ma è il subcontinente indiano a possedere il primato rispetto all’area mesopotamica della produzione e dell’utilizzo di utensili di lega di bronzo già a partire dal 3300 a.C., data che segna ufficialmente l’inizio dell’età del bronzo nel vicino oriente, con la nascita della civiltà della valle dell'Indo. Gli abitanti dell'antica valle dell'Indo, gli harappa, svilupparono nuove tecniche nella metallurgia producendo rame, bronzo, piombo e stagno.


Esempi di utensili dell’età del bronzo

Ciò comporta che, per la storiografia ufficiale, la costruzione delle imponenti opere architettoniche megalitiche e la precisa lavorazione con cui spesso le pietre utilizzate venivano incise o modellate, avvenne con utensili e strumenti fabbricati in rame o al massimo in bronzo; la scoperta della lavorazione del ferro avverrà infatti soltanto a partire dal 1200 a.C., per lo meno nelle aree di nostro maggior interesse (mesopotamia, egitto e valle dell’Indo). In mesoamerica, con la sola eccezione dell’impero Inca, non si andrà oltre il neolitico.
Ecco pertanto i primi grandi interrogativi che gli antichi siti megalitici pongono agli storici: in che modo gli antichi hanno trasportato blocchi di pietra pesanti decine se non centinaia di tonnellate come, ad esempio, a Stonehenge? In che modo sono state estratte dalle cave di origine e poi lavorate, e in alcuni casi perfettamente levigate, preparate per la “posa”, come per esempio a Baalbek? In che maniera sono state praticate le incisioni che possiamo osservare nelle rovine di Puma Punku, così come all’interno delle piramidi e dei templi egizi? Davvero tutto ciò è stato possibile con fragili e deboli utensili di rame o, nella migliore delle ipotesi, in bronzo?
Emblematico è il citato esempio di Puma Punku, località vicina a Tihuanaco, sito nelle vallate boliviane prospicienti il lago Titicaca.


Dettagli della lavorazione praticata sulle pietre di Puma Punku

Le lastre di Puma punku sono fatte di granito e di diorite. Le cave di granito e diorite più vicine a Puma punku si trovano a circa 60 Km di distanza dalla città. Il che presuppone una sbozzatura nella cava e il successivo trasporto fino alla città per 20 Km nel deserto boliviano. Inoltre alcune pietre presentano delle incisioni o delle perforazioni della roccia di altissima precisione, perfettamente rettilinee e sottili (6 millimetri), oltre che parallele. Pare improbabile che siano stati fatti con strumenti di pietra o di bronzo, ma in qualche modo devono averlo fatto. Alcune delle rocce di Puma punku sono lavorate in modo tale da formare una serie di blocchi ad incastro, che presumibilmente avrebbero composto un muro.
La diorite è una roccia estremamente dura, ma questo sembra non aver rappresentato un problema nella sua lavorazione da parte delle popolazioni di 5000 anni fa. Esempi di lavorazione della diorite sono stati ritrovati in giro per il mondo. Come gli Egizi, che utilizzavano sfere di diorite per lavorare il granito, o per realizzare vasi ed intarsi di notevole qualità.
Ciò che colpisce l’osservatore è la massima perizia seguita dagli artefici di queste incisioni, accompagnata da una precisione millimetrica e dalla presenza di simmetrie geometriche, dal nostro punto di vista troppo complicate da realizzare attraverso il semplice utilizzo di utensili di bronzo.


Esempi di incisioni geroglifiche egizie

Di teorie sulla costruzione delle piramidi ne sono state enunciate moltissime, dalla tradizionale e comunemente accettata “rampa” sulla quale centinaia, migliaia di lavoratori spingevano i pesanti blocchi su rulli o binari di legno, alla più controversa ipotesi di un particolare vegetale o sostanza in grado di plasmare la roccia, fino alla più incredibile possibilità di un coinvolgimento diretto da parte degli extraterrestri. Le stesse ipotesi valgono per le costruzioni ‘impossibili’ di tutto il mondo. Forse nessuna di queste è in grado da sola di dare una risposta definitiva al nostro quesito.
Mario Collepardi, riprendendo la teoria di J.Davidovits descritta in “The Pyramids: an enigma solved”, Hippocrene Books, New York, 1989, ci introduce alla seguente ipotesi che parte dal presupposto che fosse praticamente impossibile ritagliare, da cave rocciose, blocchi di pietra che in alcuni casi raggiungono un peso di oltre 2 tonnellate, con gli strumenti in pietra e rame disponibili in quell’epoca agli Egiziani. Secondo la teoria più comunemente accettata, infatti, si ritiene che grossi blocchi di calcare siano stati prima intagliati in forme prismatiche quasi perfette, quindi sollevati sempre più in alto con il procedere della costruzione, ed infine montati l’uno accanto all’altro per la loro sistemazione definitiva che dava forma alle Piramidi.
Secondo Davidovits, né una tecnica di lavorazione così precisa e geometricamente perfetta delle pietre, e neppure i mezzi di movimentazione e sollevazione di blocchi così grandi, erano disponibili agli Egiziani all’epoca della costruzione delle Piramidi. Davidovits avanza quindi una ipotesi alternativa per spiegare come gli antichi Egiziani abbiano potuto costruire opere così imponenti dotate di una precisa collocazione dei blocchi lapidei.
Vale subito la pena di precisare che la ipotesi di Davidovits si basa sulla disponibilità di particolari materie prime presenti nei luoghi vicini alle Piramidi, ma non disponibili in altri siti e quindi non utilizzabili al di fuori delle aree dove si trovano le Piramidi. Una materia prima fondamentale, distante non più di un chilometro dalle Piramidi, era costituita da un calcare marnoso, un minerale contenente carbonato di calcio (CaCO3) e argilla (H2O•SiO2•Al2O3) mineralogicamente ed intimamente tra loro frammisti. Questo calcare argilloso veniva mescolato con acqua e conservato in appositi canali scavati vicino al Nilo fino ad ottenere una sorte di fango nel quale il calcare era disaggregato dall’argilla.
Una seconda materia prima, assolutamente indispensabile per la trasformazione del fango contenente calcare e argilla in blocchi di pietra artificiale, era costituito dalla soda caustica (NaOH). Questo composto, del quale ovviamente gli Egiziani non conoscevano la composizione chimica, non è disponibile in natura. Tuttavia gli Egiziani,secondo Davidovits, avevano empiricamente scoperto che il composto, che oggi è noto come soda caustica, poteva essere ottenuto mescolando il minerale Natron (Na2CO3), disponibile in natura nelle aree prossime alla costruzione delle Piramidi, con acqua e con calce (CaO), a sua volta ottenuta riscaldando pietra calcarea. Come abbiano potuto riscaldare la miscela in modo efficiente rimane un mistero.
Le piramidi sono solo un esempio della straordinaria abbondanza, in tempi remoti, di manufatti realizzati nei più duri minerali esistenti, come ad esempio il basalto, che è uno tra i più antichi materiali lavorati dall'uomo. In Mesopotamia, in Egitto, in Asia Minore, tra il rovinoso sfasciume dei cumuli di blocchi calcarei in avanzato stato di dissolvimento e decomposizione, consumati dai millenni, statue, basamenti, pilastri e architravi in basalto emergono integri, come fossero stati fatti ieri. Superfici levigate, spigoli netti sui quali le intemperie di quaranta o cinquanta secoli praticamente non hanno prodotto neanche un graffio. E allora, quanto tempo ci sarebbe voluto a un operaio per renderli perfetti quali sono? E con quali utensili li avrebbe tagliati, rifiniti, levigati, incisi? Ma lo stesso discorso del basalto vale di sicuro anche per il granito o per il porfido e per tutte le altre rocce vulcaniche. Quanti anni avrebbe dovuto aspettare re Narmer per avere la sua coppa di porfido, se gliela avessero dovuto scavare a mano con una scheggia di granito?
Abbiamo esempi di incisioni, figure, scritte, delle dimensioni massime di un paio di centimetri, eseguite sul quarzo (durezza 7 sulla scala di Mohs che misura il grado di durezza degli elementi), sul diaspro (idem), sull'onice di pietre da sigillo o da ornamento, in gran parte riportate alla luce dagli scavi in Mesopotamia e in Egitto, iscrizioni il cui spessore a volte non supera 0,16 millimetri. Mentre ci è difficile persino raffigurarci la misura e l'aspetto del morsetto che necessariamente doveva tenerle ferme durante il lavoro del bulino, è stato calcolato che quelle pietre debbono essere state lavorate con punte resistentissime da mm 0,12. Di che materiale?


La scala di Mohs

E di che materiale erano fatti gli strumenti con i quali venne scolpita la statua in diorite di Gudea di Lagash, che ha più di 4000 anni? O la stele famosa del Codice di Hammurabi, di poco posteriore, dove il basalto nero è tutto coperto da una minutissima e nettissima scrittura cuneiforme che pare impressa nell'argilla o nella cera?
Vasi, coppe e tutti gli altri recipienti rinvenuti presso il sito di Naqada in Egitto, risalenti al lontanissimo periodo predi nastico oltre 5000 anni fa, pezzi di grande raffinatezza, con pareti dallo spessore minimo, simmetrici, rifiniti e levigati in maniera ineccepibile sembrano essere stati lavorati al tornio, cosa assolutamente anacronistica.
Molte delle anfore - scavate ed a volte perfino incise all'interno non si capisce come - hanno un collo sottilissimo, elegantemente allungato, e un'imboccatura così stretta che non ci passa nemmeno un dito. Fra i reperti datati al periodo più antico c'è anche una lente di cristallo, talmente perfetta che sembra molata meccanicamente. Il più antico nome di un sovrano ritrovato a Saqqara è quello di Narmer, che fu forse Menes, il leggendario unificatore dei due regni del Basso e dell'Alto Egitto: è inciso su di una coppa di porfido, materiale di grande durezza, con cui oggi viene fabbricata tra le altre cose la pavimentazione stradale. E di lì in poi - sparse ovunque - decine di migliaia di oggetti piccoli e grandi di tutte le specie, di statue, obelischi (alti fino a 73 metri, dice Plinio), stele, e centinaia di migliaia, anzi milioni di blocchi da costruzione e di rocchi di colonne, e chilometri quadrati di bassorilievi incisi, scolpiti, di geroglifici iscritti su quelle durissime rocce.
E’ paradossale che, gli antichi egizi (e come loro le altre grandi civiltà antiche) scegliessero tra le opportunità a disposizione i materiali più complicati da lavorare per il gusto di rendersi la vita difficile quando avrebbero potuto optare, per fare le loro opere d'arte, di qualche altro elemento meno ostico. Forse usavano quei materiali perché in realtà non erano poi tanto impegnativi da lavorare, perlomeno di quanto sembrino a noi oggi. In altre parole, può essere che conoscessero un altro metodo per tagliare, squadrare, dar forma alla pietra e, considerando l’opportunità di accesso a conoscenze alchemiche testimoniate dagli antichi papiri e testi quali “Il libro dei morti”, la cosa non ci stupirebbe più di tanto.
Tutti questi manufatti e infiniti altri - meravigliosi nell'aspetto e di fattura perfetta - sembrano eseguiti con la massima facilità, come se la solida pietra fosse stata semplicemente plasmata, e non violentemente colpita con rozzi attrezzi primitivi, tenacemente scavata, levigata e lucidata per un tempo interminabile. Parrebbe che quei materiali avessero subìto una lenta, silenziosa dissoluzione chimica, piuttosto che l'aggressione di un impatto meccanico. Un testo specifico ("Le pietre magiche", di Santini De Riols) ci dice che per lavorare queste pietre destinate al culto veniva usato un "punteruolo consacrato".
Mura megalitiche fatte con blocchi di dimensioni mostruose messi in opera con precisione millimetrica. Minute, delicatissime incisioni su pietre di estrema durezza. Oggetti, in pietra altrettanto dura, lavorati come fossero modellati in creta. Apparentemente senza attrezzi metallici, poiché metalli adatti e sufficientemente resistenti non ce n'erano. Gli strumenti in rame oppure in bronzo, qualora non si fossero sbriciolati sotto la pressione e l'attrito, avrebbero immediatamente "perso il taglio", e avrebbero dovuto essere continuamente riparati ed affilati. L'unico modo conosciuto per intervenire su materie di quella durezza è quello di scalfirle - con santa pazienza oppure, al giorno d'oggi, utilizzando altissime velocità di rotazione - con un arnese di forma adatta, fatto di qualcosa di ancora più duro. Ma non esistono molte sostanze più dure di quelle sopra citate, anzi non ne esiste alcuna tranne il diamante che le vince tutte, ma che però a quel tempo non veniva ancora normalmente impiegato innanzi tutto perché la tecnica non aveva fino ad allora raggiunto il livello indispensabile per saperla tagliare e in realtà non l’avrebbe raggiunto per molto molto tempo ancora.


Esempi di costruzioni e lavorazioni “impossibili”: da sinistra Sacsayhuaman, Gobekli Tepe

D’altronde l’opzione diamante è accreditata anche per il sarcofago della “Camera del Re” della grande piramide di Cheope. A prescindere dal fatto se abbia davvero o meno contenuto le spoglie mortali del faraone suddetto, ciò che ci interessa è come possa essere stato svuotato il blocco di granito che la compone. Flinders Petrie, suggerisce l'utilizzo di seghe tubolari, sempre in bronzo, in cui erano incastonati diamanti, e che avrebbero dovuto estrarre da quel masso "carote" di granito fino a creare lo spazio interno. Purtroppo però Petrie suppone anche che quelle seghe o quei trapani per poter penetrare la pietra, avrebbero dovuto ruotare o ad una così elevata velocità impossibile da raggiungere manualmente, applicando inoltre all'attrezzo una pressione o carico di una o anche due tonnellate.
Anche la conclusione di Pincherle sull’utilizzo di scalpelli di un buon acciaio fatica a convincerci del tutto come unica soluzione e risposta all’interrogativo su come le grandi civiltà ai primordi della nostra storia siano state in grado di costruire monumenti e opere architettoniche di quella portata e di quella fattura.


Il presunto sarcofago di Cheope

Ciò convalida ulteriormente il presupposto di Davidovits, ovvero che non fosse possibile effettuare le lavorazioni sopra descritte con il livello tecnologico raggiunto a quel tempo; presupposto che è anche quello di molte delle ipotesi approfondite dalla paleoarcheologia controcorrente. Ma seppur non in possesso delle tecnologie necessarie, queste epocali opere rimangono lì, ancora piene dei loro misteri e domande senza risposta. Se esse sono lì, qualcuno deve pur averle costruite… ma come, e quando?
Torniamo allora all’ipotesi del “punteruolo consacrato” in quanto abbiamo diverse testimonianze di un simile “oggetto” o tecnologia nella nostra misteriosa storia. In nostro aiuto arriva la dettagliata ricerca di Lia Mangolini su una antichissima tecnologia per la lavorazione della pietra senza l’uso di strumenti metallici.
Questa tecnologia è rappresentata dal misterioso oggetto presente nella tradizione ebraica chiamato “Shamir”. Questo misterioso e potente oggetto viene citato in numerosi midrash tra i quali quello riportato nella ricerca della Mangolini e che ci aiuta a introdurci nello studio di questo strumento.
I midrash sono definiti come narrazioni popolari che ampliano e arricchiscono di tradizione orale e di leggenda gli scarni testi dell'Antico Testamento. Spesso i midrashìm trattano le identiche storie ed i medesimi personaggi, fornendo talvolta su di essi indicazioni essenziali, ma non sono stati inclusi nella Sacra Scrittura per motivi dottrinari. Ne esistono a centinaia, di diverse epoche, soggetti e provenienze, raccolti in moltissime antologie.
Nel nostro caso il midrash che parla dello Shamir riporta che, per la costruzione del Tempio, Salomone aveva dato ordini molto precisi. Secondo la Legge mosaica, Legge divina, nessun materiale facente parte del Tempio doveva essere lavorato con attrezzi di ferro, il metallo di cui son fatte le armi che portano morte, evitando così di contaminare la sacralità del luogo.
L'altare, soprattutto, non doveva essere profanato in nessun modo da quel contatto, e nel cantiere non doveva entrare nemmeno un chiodo; né tanto meno martelli, scalpelli, picconi o altro. Tanto è vero che il materiale da costruzione - o almeno, sicuramente, la pietra - era arrivato sul posto già squadrato, se non rifinito, di modo che durante i lavori "non si udì nel Tempio nessun rumore prodotto da utensili metallici". L'unica maniera alternativa di lavorare la pietra senza impiegare strumenti di ferro era quella di usare il "magico Shamìr". Dio stesso, secondo la tradizione, l'aveva consegnato a Mosè sul Sinai, il quale se ne era servito per incidere i nomi delle dodici tribù sulle pietre incastonate nel pettorale e nell'"efòd" che facevano parte dei paramenti del Sommo Sacerdote. Da allora però lo Shamìr era sparito e non si sapeva più che fine avesse fatto.
Indizi sull’esistenza dello Shamir provengono da almeno una quindicina di midrashìm diversi, alcuni dei quali molto antichi, segno di un qualcosa di ben noto. Tutti sostanzialmente concordi sui punti principali, che figurano in svariate antologie, ma meglio accorpati o riassunti in quella che è la più completa e ponderosa raccolta moderna del genere, "Le leggende degli ebrei" di Louis Ginzberg. Rimandando ad uno studio più approfondito l'esame diretto delle fonti originali, i particolari che ne emergono sono i seguenti.
Lo Shamìr, con altre creature soprannaturali, venne creato al crepuscolo del sesto giorno della Creazione. E' grande più o meno come un grano di frumento o d'orzo, e possiede la mirabile proprietà di tagliare qualsiasi materiale per quanto durissimo, anche il più duro dei diamanti. Per questa ragione venne utilizzato da Mosè per lavorare le gemme poste sul "pettorale del giudizio" del Sommo Sacerdote. I nomi dei capi delle dodici tribù furono dapprima tracciati con l'inchiostro sulle pietre destinate a essere incastonate nel pettorale e anche sulle due onici dei fermagli posti sulle spalline dell'"efòd". Poi lo Shamìr venne passato sui tratti che rimasero così incisi come la stessa letteratura rabbinica spiega. Il fatto più straordinario fu che l'attrito o l'azione che segnò le gemme non produsse nessun residuo.
Sembra proprio la descrizione di un processo industriale moderno a guida laser.
Lo Shamìr venne inoltre usato per tagliare le pietre con cui fu costruito il Tempio, perché la legge proibiva di usare per quest'opera strumenti di ferro così come possiamo leggere nel Talmud e nell’ambito della letteratura midràshica. Inoltre, sempre dalle stesse fonti, sappiamo che lo Shamìr non può essere conservato in un recipiente chiuso di ferro o di qualunque altro metallo, poiché lo farebbe scoppiare, forse a causa dell’emissione di gas o di calore derivante da una possibile radioattività dell’elemento. Radioattività che giustificherebbe i malanni di Re Salomone e di Re Davide dopo l’utilizzo dello Shamir e della elevata mortalità di coloro che lo maneggiava per più tempo senza probabilmente le dovute precauzioni. Esso, una volta finito di essere usato va avvolto in un panno di lana e deposto in un cesto di piombo pieno di crusca d'orzo. Istruzioni troppo dettagliate per essere esclusivamente attribuite a un oggetto mistico solo frutto della fantasia dei redattori dei midrash.
Altre incredibili applicazioni dello Shamir sono descritti nel racconto di come Salomone riuscì a impossessarsi dello strumento in oggetto. Il dèmone Asmodeo il quale conosce l’ubicazione di tutti i tesori nascosti, fu costretto a rivelare al re che Dio aveva consegnato lo Shamìr a Rahav, l'Angelo (o il Principe) del Mare, il quale non lo affidava mai a nessuno se non, raramente e solo a fin di bene, al gallo selvatico, il quale viveva lontano, ai piedi di montagne mai esplorate dall'uomo: questi se ne serviva per "forestare" intere colline nude e pietrose, producendovi - per mezzo dello Shamìr - innumerevoli forellini, nei quali poi piantava semi di varie piante e di alberi. Ciò veniva fatto nell'imminenza della migrazione di gruppi tribali divenuti troppo numerosi, che più tardi, arrivando sul posto, avrebbero trovato un ambiente vivibile.
Come non collegare a questa descrizione le Migliaia di buche delle dimensioni di un uomo scavate nella nuda roccia vicino a Valle Pisco, Perù, su una pianura chiamata Cajamarquilla. Questi strani buchi (pare 6900), si estendono per circa 1450 mt in una banda larga approssimativamente 20 mt di terreno montuoso e irregolare e sono stati qui da così tanto tempo che le persone non hanno idea di chi li ha fatti e perché.


Valle Pisco, Perù

Gli archeologi hanno immaginato che siano stati scavati per immagazzinare il grano ,ma una obiezione si presenta a questa ipotesi: perché i costruttori avrebbero sprecato anni di duro lavoro per fare depositi così piccoli, quando avrebbero potuto costruire meno camere, ma più grandi? Forse sono stati utilizzati come tombe per una sola persona a sviluppo verticale? Ma non ci sono ossa, artefatti, , iscrizioni, gioielli … nemmeno un dente o una frazione di capello è stato trovato nei buchi. Inoltre non hanno coperchi per sigillare come dovrebbe avere una tomba e non c’è storia sacra o anche mito che sono stati tramandati fino ad oggi per etichettarli come tali.
In alcune sezioni ci sono buchi fatti con perfetta precisione, alcuni allineamenti funzionano in curva ad arco, in alcune linee sono senza ordine alcuno. Variano nella profondità, da circa 6-7 metri a quelli che sembrano solo accennati. A tutt’oggi, nessuno ha idea del perché sono qui, chi li fece e che cosa avessero significato.
A meno che non fosse il tentativo di forestazione, suggerito dal midrash ebraico, utilizzando il “magico Shamir”, il che porta la presenza del potente oggetto, e dei suoi divini possessori, al di là dell’Oceano Atlantico. Questo avvalora l’incredibile ipotesi che gli Egizi o comunque qualcuno prima di loro, sia riuscito a raggiungere il Sudamerica, dando origine alle prime civiltà mesoamericane. Gli studiosi hanno stabilito che il giorno uno del calendario olmeco era coincidente con il 13 Agosto 3113 a.C., data della nascita della civiltà olmeca, evento straordinario per tutte le civiltà dell'America Latina al pari dell’anno zero del calendario cristiano. Ma il 3113 a.C. indica per la precisione la data esatta dell'esilio di Thoth e dei suoi seguaci africani dall'Egitto per mano di suo fratello Ra, verso i confini del mondo per la colonizzazione di nuove terre. Una storia che ricorda in qualche modo l’esilio di Enki verso l’Abzu ordinato da suo fratello Enlil.
D’altronde possibili prove di un retaggio comune, e quindi di un passaggio di proprietà dello Shamir tra le sponde dell’oceano ci vengono fornite da un misterioso sito archeologico trovato in Perù. Trattasi dell'antica città di Caral.


La città di Caral

Tornando da questa parte dell’Oceano Atlantico abbiamo un altro esempio di possibile applicazione pratica dello Shamir: le tavole della legge incise dal “Dito di Dio” nella pietra, sul monte Sinai – altro esempio somigliante a una moderna lavorazione a guida laser. Uno dei primi a citare lo shamir associandolo a una tecnologia laser fu il matematico ed etnologo russo Matest Agrest Mendelevitch. Agrest deve essere ricordato per essere stato tra i primi scienziati a divulgare la tanto discussa teoria degli antichi astronauti. Insomma, almeno un decennio prima che identiche ipotesi fossero poi riprese, sviluppate e, purtroppo, a volte anche strumentalizzate.



Nel 1995 pubblicò il volume “L’antico miracoloso meccanismo Shamir”, in cui identificava lo Shamir come uno strumento utilizzato per il taglio e l’incisione di pietre durissime. In questo suo volume Agrest ricorda come lo Shamir viene descritto nel Talmud, uno dei testi sacri dell’Ebraismo, come “…un ‘verme tagliente’ usato per scolpire i nomi dei Shevatim sulle pietre del Choshen” e nello Zohar, altro libro sacro degli Ebrei, importante per la tradizione cabalistica, come un “tarlo metallico divisore”.
Nella Bibbia, Geremia 17/1, è descritto come un diamante: “Il peccato di Giuda è scritto con uno stilo di ferro, con una punta di diamante è inciso sulla tavola del loro cuore e sugli angoli dei loro altari…”; lo stilo era la penna usata all’epoca per incidere sulle tavolette di cera: poteva essere una specie di raggio laser ricavato appunto da un diamante?
Questo “verme di diamante”, adoperato per tagliare e forare, era considerato di natura divina e per questo motivo raramente affidato agli esseri umani. Agrest precisò che poteva essere stato descritto come un insetto a causa dell’errata traduzione della parola latina “insectator” (tagliatore), quindi scambiato per un “tarlo” perché praticava dei fori.
Tutto questo avvalora l’ipotesi che Mosè, guidando il popolo ebreo fuori dall’Egitto, abbia effettivamente sottratto agli egiziani una serie di conoscenze e di strumenti tecnologicamente avanzati, probabilmente da questi ereditati a loro volta da una civiltà ancora precedente ma paradossalmente più evoluta, antecedente anche ai Sumeri – sto parlando di Atlantide, o meglio dell’Atlantide così come descritta e immaginata dal Progetto Atlanticus.
Insieme di conoscenze e strumenti tecnologicamente avanzati in grado di entrare nei racconti e nei miti antichi come oggetti divini, confluendo forse nel significato del termine Shamir nella traduzione dall’ebraico, i cui significati sono: diamante, verme leggendario che tagliava le pietre, finocchio, paliuro. L’unica indicazione aggiuntiva viene dal termine "niàr shamìr" che in ebraico moderno indica la comune "carta vetrata", sempre riferendosi pertanto a qualcosa che consuma e corrode.
Ecco che allora nei molteplici significati che il termine Shamir racchiude possiamo individuare una parte della tecnologia che permise alle antiche civiltà l’edificazione di costruzioni megalitiche, la lavorazione e la messa in opera di blocchi di granito, porfido, basalto e altri materiali duri, l’incisione precisa e dettagliata di figure e scritte apparentemente impossibile.
Il verme leggendario che tagliava le pietre potrebbe essere il metaforico risultato dell’interpretazione che l’uomo antico poteva dare a un applicazione laser, sfruttando la concentrazione di luce che avrebbe potuto realizzarsi in quella pietra di colore verde della dimensione di un grano di frumento o d'orzo descritta nei midrash ebraici. Laser utilizzato per produrre le incisioni dei geroglifici e della scrittura su pietra così come le lavorazioni dei blocchi già visti a Puma Punku. Ad un uomo di 5-6000 anni fa certamente una tecnologia paragonabile al laser e dintorni sarebbe apparsa di origine divina; poiché non erano degli stupidi, avranno anche capito la potenziale letalità di un ipotetico strumento del genere e quindi è altamente plausibile che venisse coperto di segreto ed affidato solamente a gente degna, protetto quindi come uno dei segreti pratici della massoneria operativa di quei tempi.
L’associazione del termine “Shamir” al termine “diamante” potrebbe invece racchiudere un insieme di utensili che sfruttavano la durezza del diamante per realizzare tagli o attività più pesanti: seghe circolari, trapani a punta di diamante, persino martelli pneumatici idealizzati dall’uomo comune come “scalpelli divini” in grado di tagliare, frantumare, levigare anche le pietre più dure.
Tale esempio di applicazione viene suggerito anche in un capitolo del libro “Scoperte archeologiche non auorizzate” di Marco Pizzuti. In questo capitoletto si dice, tra le altre cose, che ad Abusir sono ancora presenti giacimenti di durissima diorite e graniti con tracce chiarissime di carotaggi che di certo non avrebbero potuto essere effettuati con scalpelli di rame. Nel libro viene sostenuto che questi fori presentano un tipo di scanalatura perfetto quanto quello delle moderne trivelle a punta di diamante. Si dice inoltre che secondo il testo dell'Agada lo shamir era in grado di frantumare qualsiasi materiale.


Esempi di odierni utensili di diamante: punte, seghe circolari

Shamir significa anche finocchio, accostandosi pertanto al mondo vegetale e quindi all’ipotesi, mai del tutto scartata, di un impasto vegetale o di un acido di origine vegetale, in grado di plasmare la roccia, renderla malleabile e quindi più facilmente lavorabile.
Sembra sempre più evidente che lo Shamìr fosse un ritrovato tecnologico-scientifico di forte interesse. Non il più importante (il primato spetta con ogni probabilità all’Arca dell’Alleanza), ma notevole abbastanza perché il primo midràsh citato lo nomini specificamente, a parte. E comunque di grande valore pratico, per lo meno nell'àmbito delle attività artigianali e artistiche della lavorazione delle pietre da ornamento, di quelle da costruzione e di quelle impiegate per la statuaria, i bassorilievi, le decorazioni et similia e cioè nei settori istituzionalmente addetti alla realizzazione esclusiva di opere e manufatti "sacri", destinati a mostrare il fasto e la magnificenza di divinità e di regnanti. Tutto ciò che lo riguardava era un "segreto di Stato".
Faceva infatti parte anche lo Shamìr, di sicuro, di quel limitato e perciò inestimabile patrimonio di riservatissime, enigmatiche conoscenze scientifiche e culturali (astronomiche, mediche, chimiche, arte dello scrivere e quant'altro) che erano proprietà privata di tutte le Supreme Autorità. Quelle cognizioni che, rappresentate da un qualche "magico" oggetto, da un'arma "fatata", da un "potente" talismano o da una "mistica" sostanza, costituivano il "segno" tangibile della "rivelazione" di Dio concessa solo a chi ne fosse "degno"; della benedizione del cielo; del riconoscimento divino del diritto di un sovrano a regnare. Solamente pochissimi eletti - per celeste privilegio - potevano accedervi. I Sovrani consacrati. Gli Unti del Signore. Ma insieme a loro anche i Sacerdoti. Gli Iniziati. I Maghi. Gli Stregoni.
Ovvero tutti coloro che, dopo il Diluvio Universale, al termine dell’Età dell’Oro caratterizzata dalla civilità atlantidea, furono selezionati dai sopravvissuti al cataclisma per riavviare la società umana consegnando loro quelle conoscenze e quegli strumenti necessari per farlo – ciò che il Progetto Atlanticus definisce come eredità degli dei. Una eredità di cui certamente lo shamir fa parte.
Certo, durante l’età dell’oro, qualsiasi processo industriale o edile prevedeva l’utilizzo di tali applicazioni essendo il risultato del livello tecnologico raggiunto da quella mirabile civiltà. Successivamente al diluvio solo pochissime e limitate persone entrarono in possesso di questi strumenti utilizzati esclusivamente per utilizzi legati all’ambito sacro o bellico, comunque come estrema ratio, per sancire il potere e il dominio di chi li possedeva nei confronti degli altri. Basti pensare alla campagna militare di Giosuè in palestina al ritorno degli ebrei dall’Egitto.
Proviamo allora a immaginare un antico cantiere in cui i costruttori potevano utilizzare simili ritrovati tecnologici: seghe circolari in diamanti, composti in grado di ammorbidire la pietra più dura, tecnologia laser e, perché no, onde sonore per movimentare gli elementi più pesanti, così come narrato nelle leggende tibetane. Ovviamente una simile visione poteva essere interpretata dagli uomini dell’età del bronzo esclusivamente come espressione di un potere divino oppure, come ipotizzato dal Progetto Atlanticus, come “ricordo” dell’espressione della potenza divina. Trattandosi infatti di oggetti mitologici di estrema rarità, tanto che Salomone dovette letteralmente rubare l’unico esemplare per potere permettere l’edificazione del tempio, è difficile sostenere che con così pochi utensili a disposizione si sia potuto provvedere all’edificazione di così tante opere.
A meno che tutte queste non siano state originariamente costruite durante l’età dell’oro, prima della fine della glaciazione di Wurm, quando questo tipo di tecnologia e sapere era comune agli ingegneri, architetti e costruttori. Costruzioni di più di 12000 anni fa, riutilizzate e parzialmente ristrutturate dagli uomini dell’età del bronzo, i quali ricordarono come le stesse furono edificate “dagli dei” con taluni strumenti i cui pochi elementi rimasti, facenti parte dell’”eredità degli dei” furono consegnati a uomini degni: sovrani, sacerdoti, maghi, scriba…
Ripercorrendo i possessori dello shamir possiamo pertanto tracciare il cammino che l’eredità degli dei ha seguito attraverso i millenni. Ci proveremo in un nostro prossimo articolo.
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