IL MODELLO OLOGRAFICO DEL CERVELLO
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“Come e dove è situata la memoria?”
Karl Pribram, celebre neurochirurgo austriaco, nato nel 1919 a Vienna, prende spunto da questa semplice domanda, arrivando a concepire una teoria rivoluzionaria della memoria umana, e quindi del cervello e della Mente.
All’inizio degli anni ’40, per l’opinione generale la memoria era situata in qualche punto preciso del cervello. Si credeva che ogni singola memoria dell’individuo – ad esempio il ricordo del profumo di un fiore, o l’ultima volta che si è incontrata la nonna – avesse una precisa collocazione tra le cellule cerebrali.
Questi “pezzi di memoria” erano battezzati “engrammi”… nessuno aveva una chiara idea di che cosa davvero fossero – ad esempio, un gruppo di neutroni, o magari di molecole – eppure gli scienziati pensavano che fosse solo questione di tempo prima della conferma definitiva.
Una fiducia fondata. In Canada, il neurochirurgo Wilder Penfield aveva condotto studi negli anni ’20, con prove convincenti che specifici ricordi avessero specifiche collocazioni nel cervello.
Una delle caratteristiche più insolite del cervello è che esso, in quanto tale, non prova dolore. Purché cranio e cuoio capelluto siano anestetizzati, è possibile intervenre chirurgicamente direttamente sul cervello di una persona sveglia e cosciente, senza provocare dolore.
Penfield sperimentava operando il cervello di persone epilettiche: stimolava elettricamente le cellule di specifiche aree cerebrali… scoprendo che stimolando i lobi temporali (la regione dietro le tempie) di soggetti svegli, questi rivivevano in dettaglio specifici episodi passati.
Ad esempio, un uomo ricordò del tutto una conversazione con un amico di parecchi anni prima; una donna rivide se stessa in cucina ascoltare il figlio che canta fuori dalla finestra, ecc.
Nel libro del 1975, “I misteri della Mente”, Penfield scrive “Era evidente che non si trattava di sogni. Si attivavano elettricamente ricordi sequenziali di esperienze passate. I pazienti letteralmente rivivevano tutto ciò di cui erano stati coscienti durante gli episodi passati, in un vivido flash-back”.
Penfield concludeva che tutto ciò che ogni persona vive, e di cui è cosciente, viene registrato nel cervello… letteralmente… ogni viso di sconosciuti incrociati per strada, ogni minima ragnatela vista fin da bambini… tutto, insomma…
Pribram, all’epoca giovane ricercatore e studente di neurochirurgia, non aveva motivo di dubitare della teoria di Penfield.
Sennonché avvenne un fatto che cambiò per sempre il suo modo di vedere le cose.
Nel 1946 ebbe l’occasione di lavorare con il grande neuropsicologo Karl Lashley. Questi aveva condotto ricerche trentennali sui misteriosi meccanismi che regolano la memoria, che Pribram ebbe modo di seguire di prima mano.
Stupefacente… non solo Lashley non era riuscito a trovare alcuna prova dell’esistenza degli engrammi, ma addirittura la sua ricerca contraddiceva quella di Penfield.
Lashley addestrava i ratti a compiere certe operazioni, come percorrere un labirinto. Poi rimuoveva chirurgicamente parti del cervello e li rimetteva alla prova. Voleva letteralmente estrarre la parte di cervello che si supponeva contenere la memoria del labirinto. Immaginate la sorpresa quando si rese conto che, non importa quanto grande fosse la parte di cervello rimossa, pur mantenendo il ratto in vita, a questi non si cancellava mai la memoria. In genere le abilità motorie del ratto venivano compromesse e si muoveva a fatica, ma la memorie restavano testardamente intatte!
Secondo Pribram, la scoperta era stupefacente: se i ricordi hanno davvero localizzazioni specifiche nel cervello, perché le rimozioni chirurgiche non hanno effetto?
Pribram riteneva che la sola risposta fosse che la memoria non ha una localizzazione specifica nel cervello, ma è in qualche modo distribuita. Purtroppo, non conosceva alcun meccanismo biologico che potesse spiegarlo.
Lashley era anche più dubbioso… scrisse “riesaminando i risultati sperimentali sulla presunta localizzazione della memoria, la conclusione razionale è che l’apprendimento è semplicemente impossibile. Eppure – in qualche modo avviene lo stesso!”
Un mistero che Pribram aveva a cuore...
Dopo due anni di collaborazione con Lashley, ebbe l’occasione di spostarsi a Yale.
Un passo avanti
A Yale, Pribram continua a riflettere sull’idea che la memoria sia in qualche modo distribuita nel cervello… più ci pensava, più se ne convinceva.
In fondo, i pazienti a cui si rimuoveva chirurgicamente parte del cervello, continuavano a non perdere specifiche porzioni di memoria. Persino la rimozione di vaste zone del cervello poteva rendere la memoria confusa, ma nessuno uscì mai dalla sala operatoria con la perdita di specifiche memorie.
Analogamente, persone che avessero subito gravi incidenti, non dimenticavano mai metà della propria famiglia, o metà del romanzo che avevano appena letto. Persino rimuovendo parti dei lobi temporali, l’area così importante nelle ricerche di Penfield, non si avevano buchi nelle memorie dei pazienti.
Pribram fu ulteriormente convinto dalla impossibilità, sua e di altri ricercatori, di replicare le scoperte di Penfield stimolando i cervelli di persone non epilettiche. Con queste, nemmeno lo stesso Penfield ci era mai riuscito.
Nonostante la crescente evidenza che le memorie fossero in qualche modo distribuite, Pribram era ancora al punto di partenza.
Come spiegare il potere del cervello a compiere un compito apparentemente magico, se non impossibile?
Poi, a metà degli anni ’60, lesse un articolo di Scientific American che descriveva la costruzione del primo ologramma – si sentì come folgorato!
Non solo l’idea dell’olografia era strabiliante, ma gli dava la soluzione al rompicapo che andava affrontando da anni!
Perché Pribram restò così eccitato?
Bisogna comprendere cosa è e come funziona un ologramma. Ciò che lo rende possibile è un fenomeno chiamato “interferenza” (che ritroviamo spesso su Grandi Passioni.com… andate a rivedere i post sulla fisica quantistica).
La “interferenza” è lo schema che creano due o più onde che si incrociano, ad esempio onde d’acqua, quando si colpiscono le une con le altre. Se, per esempio, se si getta un comune sasso nello stagno, si producono una serie di onde concentriche che tendono verso l’esterno. Gettatando due sassi nello stagno, si hanno due serie di onde che vanno verso l’esterno, si incrociano e passano le une attraverso le altre. Il complesso schema di creste ed avallamenti delle onde risultanti si chiama appunto “schema d’interferenza”.
Qualunque fenomeno ondulatorio può creare uno “schema d’interferenza”, comprese le onde luminose e le onde radio. La luce del laser, assolutamente pura, è particolarmente adatta, lo “schema d’interferenza” è praticamente perfetto, ed è per questo che, prima del laser, non è stato possibile creare gli ologrammi.
Come si ottiene un ologramma?
Un raggio laser viene separato in due raggi distinti. Il primo rimbalza sull’oggetto che si desidera fotografare. Il secondo si va invece a scontrare con la luce riflessa del primo. Questo crea uno “schema d’interferenza” che viene impresso su una superficie fotosensibile.
A prima vista, l’immagine sulla superficie non assomiglia affatto all’oggetto fotografato.. anzi sembra proprio la serie di onde prodotta dal sasso nello stagno… ma non appena un raggio laser attraversa la superficie, ecco apparire un’immagine tridimensionale dell’oggetto fotografato!
Si può persino camminarci intorno e vederla da differenti angolazioni, come fosse un oggetto reale.
Naturalmente, se si tenta di afferrare l’immagine, ci si rende conto che non c’è niente fuorché aria.
La tridimensionalità non è il solo aspetto significativo dell’ologramma. Se un pezzo di pellicola sensibile olografica con impressa, ad esempio, l’immagine di una mela, viene tagliata a metà e poi illuminata con una luce laser, ognuna delle due metà contiene ancora tutta l’immagine della mela!!! Anche continuando a dividere le metà in parti sempre più piccole, in ogni pezzo si continua a poter ricostruire l’intera mela, anche se l’immagine diventa via via più confusa.
A differenza della fotografia normale, ogni piccolo pezzo della pellicola olografica contiene l’informazione dell’intera immagine.
Era proprio questo a rendere Pribram così eccitato! Finalmente poteva cominciare a comprendere la maniera in cui la memoria si distribuisce nel cervello!
Se un pezzettino di pellicola olografica è in grado di trattenere l’informazione dell’intera immagine, allora, pensava Pribram, anche ogni parte del cervello è in grado di trattenere l’informazione che può richiamare un’intero ricordo.
La memoria non è la sola cosa che il nostro cervello processa in modo olografico: anche la vista è olografica!
Una delle scoperte di Lashley è che i centri visivi del cervello resistono in modo sorprendente a rimozioni chirurgiche: nel ratto, persino rimuovendo il 90% della corteccia visiva (la parte del cervello che riceve ed interpreta ciò che vede l’occhio), scoprì che l’animale poteva ancora compiere attività che richiedevano abilità visive evolute.
Esperimenti simili di Pribram rivelarono che il 98% dei nervi ottici del gatto possono essere separati senza danno significativo all’esecuzione di compiti che richiedono abilità visiva.
All’epoca, questa situazione corrispondeva all’ipotesi che il pubblico di un film riesca a godere la pellicola anche dopo che il 90% dello schermo sia coperto, e gli esperimenti di Pribram erano una seria sfida all’interpretazione che allora si dava della vista, secondo cui si pensava che ci fosse una corrispondenza 1:1 tra l’immaine vista dall’occhio ed il modo in cui questa immagine viene rappresentata nel cervello. In altre parole, se una persona guarda un quadrato disegnato sulla carta, si credeva che l’attività elettrica nella corteccia assumesse essa stessa una forma quadrata.
Sebbene le scoperte di Lashley sembrassero seppellire per sempre questa interpretazione, Pribram non era ancora soddisfatto: a Yale escogitò degli esperimenti per misurare con cura l’attività elettrica nel cervello delle scimmie, mentre compivano vari compiti visivi. Non solo confermò che non esiste assolutamente la corrispondenza 1:1, ma persino che non c’era nemmeno alcuno schema riconoscibile nel modo in cui gli elettrodi venivano attivati. Pribram scrisse “Gli esperimenti sono incompatibile con l’interpretazione secondo cui una immagine di tipo fotografico viene proiettata sulla superficie della corteccia”.
Di nuovo, la resistenza della corteccia visiva alla rimozione chirurgica suggeriva che anche il senso della vista, esattamente come la memoria, è in qualche modo distribuito… Pribram, dopo aver preso conoscenza del procedimento olografico, parlò di “vista olografica”.
La natura dell’ologramma per cui “il tutto è in ogni sua parte” sembrava aprire alla spiegazione di come potesse essere rimossa una parte così enorme della corteccia, senza compromettere la vista. Se il cervello processa le immagini creando una qualche specie di ologramma interno, persino una piccola parte dell’ologramma potrebbe riuscire a ricostruire l’intera immagine che l’occhio ha davanti a sé.
Resta una domanda: che genere di attività “ondulatoria” può mai compiere il cervello, per creare questi ologrammi interni? Pribram concepì una risposta: era noto che le comunicazioni elettriche che avvengono tra i neuroni del cervello non succedono da sole; i neuroni posseggono ramificazioni, e quando il segnale elettrico raggiunge la fine di uno di questi rami, si irraggia all’esterno, come le onde in uno stagno. Siccome i neuroni sono compressi in uno spazio molto ridotto, si crea una espansione di queste onde – ed è un fenomeno ondulatorio – che continuano tra di loro ad incrociarsi, creando, secondo Pribram, un caleidoscopio quasi infinito di effetti di interferenza… potrebbe essere questo a dare al cervello le sue proprietà olografiche.
Osserva Pribram: “L’ologramma è lì da sempre, nella natura ondulatoria delle connessioni neurali, semplicemente non siamo mai stati abbastanza svegli da rendercene conto”.
Le domande a cui risponde la teoria olografica del cervello
Pribram pubblicò il primo articolo sulla natura olografica del cervello nel 1966, continuando poi ad espanderla e precisarla, dando una spiegazione plausibile a molti misteri della Mente.
La vastità della memoria
L’olografia spiega come possa il cervello conservare una quantità immensa di ricordi in uno spazio relativamente ridotto.
Il matematico John Von Neumann ha calcolato che mediamente l’essere umano, nel corso della vita, ricorda 2,8 x 1028 (280.000.000.000.000.000.000) bit di informazione: a lungo i ricercatori si sono chiesti quale meccanismo mentale possa spiegare una simile capacità.
Sorprendentemente, anche gli ologrammi hanno una fantastica capacità di conservare informazione. Modificando l’angolo con cui due laser colpiscono la superficie olofotografica, è possibile registrare molte diverse immagini sulla stessa superficie. Ogni immagine così impressa può poi essere recuperata illuminando la superficie con un laser avente lo stesso angolo dei raggi originari. I ricercatori hanno calcolato che un centimetro quadrato di superficie olofotografica può conservare informazioni pari al contenuto di 50 Bibbie (non si riesce però a trovare nessuno che abbia voglia di leggerle, ndr).
L’abilità di richiamare ricordi e dimenticarli
L’ologramma spiega anche questa specifica abilità: tenendo un pezzo di pellicola olofotografica sotto un raggio laser, inclinandola, varie immagini contienute appaiono e spariscono in una sorta di flusso continuo. L’idea è che la nostra abilità a ricordare e dimenticare corrisponda ad illuminare con il laser la superficie ad un particolare angolo, richiamando un’immagine specifica. Analogamente, quando non riusciamo più a ricordare qualcosa, ciò può corrispondere a proiettare uno o più raggi sulla superficie, mancando però l’angolo corretto per richiamare l’immagine giusta.
Memoria associativa
Nelle Ricerca del Tempo Perduto di Proust, un goccio di thé ed una fettina di torta detta piccola madeleine fa sì che il narratore si ritrovi immerso in un flusso di memorie del proprio passato, molto vivide. Lì per lì resta anch’egli stupefatto, ma poi, con sforzo, si rende conto che sua zia era solita dargli la stessa torta quando era bambino, ed era l’associazione a risvegliargli la memoria. Praticamente chiunque ha avuto esperienze simili, eventi o stimolo di sensi che evocano scene dal lontano passato.
L’interpretazione olografica offre una nuova analogia per le tendenze associative della memoria, mostrata da un’altra tecnica: per prima cosa, il raggio laser viene fatto rimbalzare con¬tem¬po¬ra¬nea¬men¬te tra due oggetti, ad esempio una sedia ed una pipa. Si permette al raggio che rimbalza da ogni oggetto di scontrarsi con l’altro, ed il risultante schema d’interferenza viene impresso su una pellicola olofotografica. Ora, quando la sedia viene illuminata con un laser, e la luce che vi si riflette passa dalla pellicola, ad apparire è la pipa! Naturalmente, invertendo gli oggetti l’effetto è lo stesso – illuminando la pipa, si fa apparire la sedia!!!
Così, se il cervello funziona in modo olografico, un processo simile potrebbe determinare il modo in cui specifici oggetti o esperienze evocano eventi del nostro passato.
Proseguiamo dalla parte precedente, a spiegare meccanismi di funzionamento del cervello e della Mente del tutto misteriosi per l’interpretazione classica, e sui quali l’interpretazione olografica getta una nuova luce.
L’abilità di riconoscere cose familiari
A prima vista l’abilità di riconoscere cose familiari può sembrare niente di speciale, ma i ricercatori hanno capito da tempo che si tratta di un’abilità complessa. Per esempio, l’assoluta certezza con cui notiamo un viso familiare in una folla di centinaia di persone non è una semplice emozione soggettiva, ma sembra determinata da una forma velocissima ed affidabile di elaborazione di informazioni che avviene nella nostra Mente.
In un articolo del 1970 sulla rivista scientifica britannica Nature,il fisico Pieter van Heerden fece notare che una forma di tecnica olografica nota come recognition holography (olografia di riconoscimento) offre una possibilità di comprendere tale abilità.
Nella recognition holography, l’immagine olografica di un oggetto è registrata nella solita maniera, salvo per il fatto che il raggio laser viene fatto rimbalzare da uno specchio speciale detto focusing mirror, prima di arrivare alla superficie olofotografica. Se un secondo oggetto, simile ma non identico al primo, viene immerso nella luce laser, e questa viene fatta rimbalzare dallo specchio sulla pellicola appare un punto luminoso. Più è luminoso ed intenso il punto, e maggiore è la somiglianza tra il primo ed il secondo oggetto. Se i due oggetti sono del tutto dissimili, non appare alcun punto luminoso. Mettendo una fotocellula dietro la pellicola olografica, è possibile usarla come sistema automatico di riconoscimento.
Una tecnica simile, detta olografia di interferenza, può spiegare come facciamo a riconoscere sia le caratteristiche familiari che quelle estranee in un’immagine, ad esempio il viso di una persona che non abbiamo visto da molti anni. In questa tecnica, un oggetto viene osservato attraverso una pellicola olografica che contiene l’immagine dell’oggetto stesso. Ogni caratteristica dell’oggetto che è cambiata rispetto a com’era l’oggetto quando è stata fatta l’olografia, riflette la luce in maniera diversa. Basta un’occhiata attraverso la pellicola per rendersi immediatamente conto di come l’oggetto sia cambiato, ed anche di come sia rimasto lo stesso. La tecnica è così sensibile che persino l’impronta di un dito su un blocco di granito è immediatamente visibile… utilissimo in alcune applicazioni pratiche, specialmente per testare materiali.
La memoria fotografica
Nel 1972 a Harvard, due ricercatori nel campo della vista, tali Daniel Pollen e Michael Tractenberg, proposero che la teoria olografica del cervello possa spiegare la ragione per cui alcune persone hanno la cosiddetta memoria fotografica. In genere, esse sono in grado di osservare brevemente e memorizzare la scena davanti ai loro occhi; quando vogliono rivederla, ne “proiettano” un’immagine mentale, come guardando uno schermo immaginario davanti agli occhi. Studiando uno di questi individui, Elzabeth, professoressa di Storia dell’Arte a Harvard, Pollen e Tractenberg scoprirono che le immagini mentali che proiettava erano talmente reali per lei che, quando “leggeva mentalmente” una pagina del Faust di Goethe, i suoi occhi si muovevano esattamente come se il libro fosse davanti ai suoi occhi.
Notando che l’immagine conservata in un pezzo di pellicola olofotografica diventa sempre più confusa man mano che se ne riduce la dimensione, Pollen e Tractenberg hanno suggerito che forse questi individui hanno una memoria così potente perché in qualche modo hanno accesso a regioni molto vaste della loro memoria olografica. Al contrario, la maggior parte di noi ha memorie meno precise perché l’accesso è limitato a regioni più piccole.
Il trasferimento di abilità acquisite
Pribram ritiene che il modello olografico spiega anche l’abilità di trasferire abilità acquisite da una parte del corpo ad un’altra. Fate questo banale esperimento: con il vostro gomito sinistro, tracciate in aria il vostro nome. Probabilmente non l’avete mai fatto prima, eppure non dovreste avere alcuna difficoltà.
Può sembrare niente di eccezionale, ma nella interpretazione classica del cervello, le varie zone di questo (come, ad esempio, quelle che controllano il gomito sinistro), sono in grado di compiere delle azioni solamente dopo che un apprendimento ripetitivo ha generato le appropriate connessioni neurali tra le cellule del cervello… quindi, l’abilità di trasferire abilità da una parte del corpo all’altra senza difficoltà resta un mistero.
Pribram sottolinea che la questione diventa spiegabile se si assume che il cervello in qualche modo converte ogni informazione che possiede, comprese quelle di abilità acquisite come saper scrivere, in un linguaggio di schemi di interferenza di onde. Un cervello del genere sarebbe infinitamente più flessibile e potrebbe trasferire le informazioni trasferite nelle sue varie parti con la stessa facilità con cui un abile pianista sa eseguire uno stesso brano in zone diverse della tastiera del pianoforte.
Questa stessa flessibilità può anche spiegare in che modo siamo in grado di riconoscere un viso familiare indipendentemente dall’angolo con cui lo osserviamo.
Di nuovo, una volta che il cervello ha memorizzato un viso – o ogni altro oggetto o scena – lo converte in un linguaggio costituito da onde, e, in un certo senso, ne crea un ologramma che può poi esaminare da varie angolazioni e prospettive.
Come costruiamo “il mondo la’ fuori”
Per ogni persona e’ del tutto ovvio che emozioni e sensazioni di amore, fame, rabbia, e cosi’ via, sono “realta’ interne” al proprio corpo, mentre il suono di un’orchestra, il calore del sole, l’odore del pane infornato, ecc., sono “realta’ esterne”.
Eppure, non e’ ancora chiaro in che modo il cervello riesce a distinguere tra i due tipi di realta’.
Ad esempio, Pribram sottolinea che quando si guarda un’altra persona, l’immagine e’ in effetti sulla retina dell’osservatore. Eppure, nessuno percepisce la persona come se fosse sulla retina, bensi’ come “persona la’ fuori”.
Ed ancora: quando si sbatte un dito del piede contro un oggetto, l’esperienza di dolore e’ nel piede stesso. Si tratta di un processo neurologico che in qualche modo avviene nel cervello.
E’ lecito domandarsi come faccia il cervello a registrare gli infiniti processi fisici e neurali che sono determinati dalla nostra esperienza, tutti interni al corpo, e nello stesso tempo riuscire a farci percepire che alcune “realta’ “ sono interne al corpo, ed altre esterne?
Ebbene, la quintessenza della natura dell’ologramma sta proprio nel creare l’illusione che gli oggetti siano la’ dove invece non sono. Sappiamo che se si guarda un ologramma, questo sembra essere tridimensionale, ma se si tenta di afferarlo, la mano ci passa attraverso. Nonostante quanto possano comunicare i sensi, nessuno strumento di misura registrera’ mai la presenza fisica dell’oggetto nel luogo ove appare l’ologramma, che e’ dunque un’immagine virtuale, che appare la’ ove l’oggetto non e’, persino con estensione tridimensionale nello spazio… ma non ha piu’ realta’ del nostro riflesso in un qualunque specchio.
Ulteriori prove della capacita’ del cervello di far pensare che processi mentali interni sono invece esterni al corpo, sono state trovate dal premio Nobel Georg von Bekesy. In una serie di esperimenti condotti negli anni ’60, Bekesy ha piazzato dei vibratori sulle ginocchia di persone bendate. Poi, ha iniziato a cambiare la frequenza della vibrazione. Scopri’ che e’ possibile ingannare la persona dandole la sensazione che c’e’ un punto da cui si originano le vibrazioni, e che questo “saltella” da una gamba all’altra… addirittura si puo’ trasmettere la sensazione che il punto di origine delle vibrazioni sia in aria, tra le ginocchia. In altre parole, ha dimostrato che gli esseri umani possono avere l’illusione di provare una sensazione fisica persino in punti dello spazio ove il corpo non e’ presente.
Pribram ritiene che il lavoro di Bekesy e’ compatibile con la concezione olografica e che illumina ancor meglio il modo in cui lo schema di interferenza di onde – qui prodotto da vibrazioni fisiche – permette al cervello di localizzare l’esperienza al di fuori dei confini fisici del corpo. Pribram ritiene che questo spieghi anche la sensazione di “arti fantasma”, come fossero presenti, che provano persone a cui sono stati amputati… riescono persino a provare crampi, dolore, solletico in arti che fisicamente non esistono piu’… Pribram ipotizza che provino l’esperienza della memoria degli arti, registrata nelo schema di interferenza del loro cervello.
Esperimenti che confermano il modello olografico del cervello
Certo Pribram era elettrizzato dalla sua teoria olografica, ma si rendeva ben conto che senza una solida evidenza sperimentale, essa non aveva alcun significato. Cosi’, tale Paul Pietsch, ricercatore della Indiana University, gli forni’ risposte importanti.
La cosa divertente e’ che Pietsch inizio’ i suoi lavori come ardente oppositore della teoria olografica, soprattutto della parte per cui la memoria non ha una locazione specifica nel cervello.
Pietsch decise cosi’ di smentire Pribram, con una serie di esperimenti sulle salamandre. Aveva infatti scoperto che e’ possibile rimuovere anche l’intero cervello della salamandra senza ucciderla, lasciandola in uno stato di torpore, e poi addirittura rimetterlo a posto, facendo tornare normale l’animale.
Pietsch si disse che, se l’istinto ad alimentarsi non e’ posizionato in alcun luogo specifico del cervello, come voleva Pribram, non dovrebbe avere nessuna importanza il modo in cui il cervello dell’animale viene posizionato nella testa… se invece la posizione del cervello e’ importante, Pribram sarebbe smentito. Quindi, ha preso la povera bestia, ha rivoltato l’emisfero destro e sinistro del cervello, e, non senza sgomento, si e’ dovuto rendere conto che la salamandra tornava velocemente a nutrirsi normalmente.
Allora, non contento, ha preso un’altra salamandra (non c’e’ un’associazione protezione salamandre? ndr) e le ha rivoltato il cervello dall’alto verso il basso. Anche questa torno’ a nutrirsi. Pietsch, un tipo ostinato, non si diede per vinto e ricorse a misure drastiche (perche’ girare il cervello di una bestia per lui era una passeggiata… ndr). In ben 700 (!!!) tentativi ha iniziato ad affettare, girare, strascicare, sottrarre e persino macinare (!) il cervello di queste povere bestie, ma ogni volta che rimetteva a posto cio’ che restava del loro cervello, il loro comportamento alimentare tornava alla normalita’.
Il risultato e’ che Pietsch, da oppositore di Pribram ne divenne uno dei sostenitori piu’ tenaci… il dettaglio degli esperimenti sono descritti nel libro Shufflebrain. Speriamo almeno che si sia deciso a lasciar stare le salamandre…
Il linguaggio matematico dell’ologramma
Le teorie che hanno permesso di sviluppare l’ologramma furono formulate per la prima volta nel 1947 da Dennis Gabor, che per questo vinse il Premio Nobel: all’inizio egli non pensava affatto al raggio laser, ma “soltanto” a migliorare il microscopio elettronico, a quell’epoca primitivo ed assai imperfetto. Il suo approccio era matematico, ed usava un genere di calcolo inventato da un francese del diciottesimo secolo, Jean B. J. Fourier.
In parole povere, Fourier aveva inventato un sistema matematico per convertire qualunque schema, non importa quanto complesso, in un linguaggio di semplici onde. Non solo, mostro’ anche come queste onde potessero essere riconvertite nello schema originale.
Ad esempio, cosi’ come una telecamera converte un’immagine in frequenze elettromagnetiche ed una televisione riconverte queste frequenze nell’immagine originale, cosi’ Fourier aveva dimostrato un processo analogo da un punto di vista matematico. Le equazioni che sviluppo’ sono note come Trasformate di Fourier.
Esse permisero a Gabor di convertire la fotografia di un oggetto nella “macchia” di schemi d’interferenza su un pezzo di pellicola olografica. Gli permisero anche di trovare un modo per riconvertire questi schemi nell’immagine originale dell’oggetto. In effetti, l’ “intero” che si vede in ogni pezzo di ologramma e’ un sottoprodotto che avviene quando un’immagine o uno schema e’ tradotto nel linguaggio di forme d’onda di Fourier.
Alla fine degli anni ’60 ed inizio degli anni ’70, diversi ricercatori contattarono Pribram per dirgli di avere scoperto che il senso della vista funziona come un analizzatore di frequenze. Poiche’ la frequenza esprime il numero di oscillazioni di un’onda al secondo, cio’ sembrava confermare con forza che il cervello funziona davvero come un ologramma.
Fu pero’ solo nel 1979 che due neurofisiologi di Berkeley, tali Russell e Karen De Valois, fecero la scoperta cruciale! Prima studiarono con cura le ricerche degli anni ’60 che mostravano come ogni cellula del sistema visivo tenda a rispondere ad uno schema specifico – alcune si attivano quando l’occhio vede linee orizzontali, altre quando vede linee verticali, e cosi’ via. Molti ricercatori conclusero che il cervello riceve i segnali dalle cellule, ognuna altamente specializzata, ed in qualche modo li assembla insieme per darci la percezione visuale del mondo esterno.
Nonostante la teoria fosse estremamente popolare ed affermata, DeValois sentiva che non era completa. Per verificare le sue ipotesi, uso’ le trasformate di Fourier per convertire semplici schemi quadrettati e piani in forme d’onda. Poi, fece dei rilievi per verificare come le cellule del cervello rispondono a queste nuove immagini di forme d’onda. La scoperta fu che le cellule non rispondono affatto agli schemi originali, ma alle trasformate di Fourier degli schemi. Ci poteva essere una sola conclusione: il cervello usa la matematica delle trasformate di Fourier – la stessa degli ologrammi – per convertire le immagini visuali nel linguaggio di Fourier di forme d’onda.
La scoperta di De Valois fu poi confermata da numerosi altri laboratori sparsi per il mondo, e pur non dimostrando in modo assoluto che il cervello e’ in effetti un ologramma, diede abbastanza prove per convincere Pribram che la sua teoria e’ sostanzialmente corretta. Stimolato dall’idea che la corteccia visiva rispondeva non a schemi ma a frequenze delle varie forme d’onda, inizio’ a ridefinire il ruolo delle frequenze anche per gli altri sensi.
Non ci mise molto a capire che la loro importanza era stato sottovalutata dai ricercatori del ventesimo secolo. Un secolo prima di DeValois, il fisico e fisiologo tedesco Hermann von Helmholtz mostro’ che l’orecchio e’ in pratica un analizzatore di frequenze. Ricerche piu’ recenti rivelavano che il senso dell’olfatto pare basato sulle cosiddette frequenze osmiche.
Il lavoro di Bekesy dimostra chiaramente che la pelle e’ sensibile alle frequenze delle vibrazioni, ed ha persino portato le prime prove che anche il gusto pare implicare una qualche forma di analisi delle frequenze. E’ interessante il fatto che le equazioni matematiche che permettevano a Bekesy di predire la risposta dei soggetti alle varie frequenze, erano proprio del tipo delle equazioni di Fourier.
Il ballerino come forma d’onda
Scavando nel lavoro degli scienziati del passato, Pribram fece forse la scoperta piu’ sorprendente: lo scienziato russo Nikolai Bernstein scopri’ che persino i nostri movimenti fisici vengono codificati nel cervello in un linguaggio di forme d’onda di Fourier. Negli anni ’30, Bernstein fece vestire alcune persone in calzamaglie completamente nere con su dipinti dei punti bianchi in corrispondenza delle articolazioni. Poi, li mise contro uno sfondo nero e li riprese con una cinepresa mentre compivano varie operazioni in movimento, come danzare, camminare, saltare, scrivere a macchina, martellare.
Quando sviluppo’ il film, si vedevano solo i punti bianchi in movimento sullo schermo, in movimenti fluidi e piuttosto complessi. Quindi, analizzo’ il materiale con il metodo di Fourier, convertendo i punti e le linee visibili nel linguaggio di forme d’onda. Sorprendentemente, scopri’ che le forme d’onda contenevano schemi nascosti che gli permettevano di predire il movimento successivo del soggetto con altissima precisione.
Quando Pribram incontro’ il lavoro di Bernstein, ne riconobbe immediatamente le implicazioni. Forse, si disse, la ragione per cui gli schemi nascosti emergono dopo l’analisi matematica con il metodo di Fourier e’ che questo e’ il modo in cui vengono conservati nel cervello. Si trattava di una possibilita’ decisamente eccitante – se il cervello analizza i movimenti spezzandoli nelle componenti di frequenza, cio’ puo’ spiegare la capacita’ dell’uomo di apprendere molto rapidamente abilita’ fisiche complesse. Ad esempio, noi non impariamo ad andare in bicicletta memorizzando ogni piu’ piccolo particolare del processo. Impariamo “prendendo” l’intero movimento fluido nel suo complesso.
La fluida interezza con cui tipicamente impariamo moltissime attivita’ fisiche e’ ben ardua da spiegare se si pensa ad un cervello che immagazzina informazioni bit per bit. E’ molto piu’ semplice se si pensa che il cervello compie un’analsi di Fourier delle abilita’ fisiche e le assorbe nella loro interezza.
La reazione della comunita’ scientifica
Pur supportato da notevoli prove sperimentali, il modello olografico di Pribram rimane molto controverso. Da una parte esistono parecchie teorie diffuse ed accettate sul funzionamento del cervello, e ci sono prove sperimentali che le confermano tutte.
Ci sono ricercatori per cui la natura distribuita della memoria si puo’ spiegare con il flusso di sostanze chimiche nel cervello. Secondo altri, sono i flussi elettrici tra vasti gruppi di neuroni a spiegare a spiegare memoria ed apprendimento. Ogni scuola di pensiero ha dei sostenitori convinti, ed e’ probabilmente corretto dire che tutt’ora la maggior parte degli scienziati non e’ convinta della visione olografica di Pribram.
Ad esempio, il neurofisiologo Frank Wood della Scuola di Medicina Bowman Gray a Winston-Salem in Carolina del Nord ritiene che “ci sono poche scoperte sperimentali per cui l’olografia e’ la spiegazione necessaria, o anche solo quella preferibile”. Pribram e’ perplesso da simili affermazioni, e risponde notando che ha documentazione per oltre 500 riferimenti sperimentali.
Altri ricercatori sono d’accordo con Pribram. Il dottor Larry Dossey, ex capo dello staff all’Ospedale della citta’ di Dallas, ammette che la teoria di Pribram e’ una sfida seria a molte convinzioni di lunga data sul funzionamento del cervello, ma sottolinea che “sono molti gli specialisti in materia attratti da questa visione, se non altro per l’evidente inadeguatezza degli attuali punti di vista ortodossi”.
Il neurologo Richard Restak, autore della serie televisiva The Brain, condivide l’opinione di Dossey. Osserva che nonostante l’enormita’ di prove sperimentali che confermano la dispersione nel cervello delle abilita’ umane, la maggior parte dei ricercatori continua ad aggrapparsi all’idea che ogni singola funzione possa essere localizzata allo stesso modo con cui le citta’ possono essere localizzate su una mappa. Restak ritiene che le teorie basate su questa premessa siano non solo semplificazioni eccessive, ma funzionano da vere e proprie camicie di forza concettuali, che evitano di scontrarsi con l’autentica complessita’ del cervello. Crede che “non solo l’ologramma e’ possibile, ma attualmente rappresenta il miglior modello possibile per la descrizione del funzionamento del cervello”.
Pribram incontra David Bohm
Fin dagli anni ’70 Pribram aveva sufficienti prove sperimentali da convincersi che la sua teoria era corretta; inoltre, aveva anche evidenze sperimentali che singoli neuroni nella corteccia rispondono in modo selettivo a specifiche bande di frequenza, il che confermava ulteriormente le sue conclusioni.
La domanda che inzio’ a tormentarlo era… se l’immagine della realta’ che abbiamo nel cervello non e’ affatto un’immagine ma un ologramma… si tratta dell’ologramma di che cosa?
Pribram si rese conto che, se il modello olografico del cervello e’ da prendersi sul serio, la conclusione logica e’ che la realta’ oggettiva attorno a noi – gli oggetti che ci circondano, i paesaggi, le persone – potrebbero persino non esistere, o perlomeno esistere non nel modo in cui crediamo che esistano.
Si comincio’ a chiedere se non fosse possibile cio’ che da sempre i mistici sostenevano, cioe’ che la realta’ e’ maya, illusione, e cio’ che “c’e’ la’ fuori” e’ solo una sinfonia di forme d’onda in risonanza, un “dominio di frequenze” trasformato nel mondo che conosciamo solo dopo essere passato dal filtro dei nostri sensi.
Pribram comprendeva che la soluzione a questo genere di domande sta al di fuori del suo settore di competenza, cosi’ si rivolse per consiglio a suo figlio, un fisico, il quale gli raccomando’ di leggere il lavoro del fisico quantistico David Bohm. Pribram fu elettrizzato. Non solo aveva trovato la risposta alle sue domande, ma anche scoperto che, secondo Bohm, l’intero Universo e’ un ologramma.