I viaggi di Gulliver, "visita a Laputa", da pag.131
Ma ecco, ad un tratto, farsi un gran buio, in modo tutto diverso da quello che
suole quando passa una nuvola sul sole. Voltomi verso di questo, scorsi un
grande corpo opaco e mobile, che sembrava diretto verso l'isola dove io stavo.
Esso pareva sospeso a due miglia d'altezza, e mi nascose il sole per sei o sette
minuti; però non m'accorsi, nel frattempo, che l'aria fosse più fredda né
l'oscurità maggiore che s'io fossi stato all'ombra d'una montagna.
Avvicinandosi ancora al punto ove mi trovavo, codesto corpo mi apparve
formato d'una sostanza solida, dal fondo piatto e liscio, che rifletteva il mare su
cui si librava. Fermatomi sopra un'alta roccia a circa duecento passi dalla
spiaggia, vidi quel corpo abbassarsi nella mia direzione, a un miglio di distanza.
Guardai allora col cannocchiale, e scopersi moltissime persone che andavano su
e giù lungo i fianchi un po' scoscesi di codesta isola volante; ma non discernevo
che cosa facesse codesta gente.
Per quanto il naturale istinto di conservazione e la speranza d'uscire alla
meno peggio dalla mia rischiosa avventura m'empissero il cuore di gioia, il
lettore può immaginarsi il mio stupore alla vista di quell'isola aerea abitata da
persone che sembravano poterla muovere e alzare a loro talento. Tuttavia, non
avendo voglia in quell'istante di fare della filosofia, mi contentai di guardare
verso qual parte si dirigesse l'isola, che sembrava essersi per un momento
fermata. Quasi subito, infatti, essa si mosse venendo dalla mia parte, sicché
potei distinguervi parecchie grandi gallerie e porticati, congiunti, di piano in
piano, da numerose scalee a eguali intervalli; nella galleria più bassa vidi
benissimo diversi uomini occupati a pescare gli uccelli con la lenza, e altri che
stavano a guardarli. Afferrato il mio berretto (il famoso cappello ormai era
consumato da un pezzo) e il fazzoletto, cominciai a fare dei grandi segnali, e
poi gridai anche a pieni polmoni. Una vera folla s'accalcò ben presto dalla parte
dell'isola prospiciente verso di me, e dai loro gesti capii che mi avevano veduto,
pur non potendomi rispondere. Cinque o sei di costoro salirono, in fretta e in
furia, verso la cima dell'isola volante, probabilmente per riferire la scoperta
fatta a qualche importante personaggio e domandare ordini in proposito. La
folla dei curiosi intanto cresceva sempre.Dopo mezz'ora l'isola s'era tanto accostata, che non più di cento yards me ne separavano.
Allora presi le più umili e supplichevoli positure, e parlai a costoro
col più insinuante accento; ma nessuno di loro mi rispose.
Le persone più vicine mi parevano, a giudicare dai loro vestiti, provviste
d'una certa autorità: essi mi guardavano fissamente e si consultavano fra loro:
infine, uno di essi mi diresse la parola in una lingua chiara, elegante e dolce,
dall'accento vagamente simile all'italiano; sicché io risposi loro appunto in
italiano, sperando che il suono ne sarebbe più gradito ai loro orecchi. Ma non ci
intendevamo affatto.
Comunque essi compresero il disagio della mia posizione, sicché, fattomi
segno di scendere dalla roccia e di andare verso la riva del mare, fecero
abbassare un altro poco l'isola, finché poterono calare dalla galleria inferiore
una catena, con uno sgabelletto attaccato. Sedutomi su questo arnese, in pochi
istanti fui tirato su per mezzo d'un arganello.
Una folla di gente assisteva al mio arrivo; i personaggi che sembravano di
maggiore autorità furono i primi a venirmi incontro. Essi mi guardavano con
meraviglia, che era perfettamente ricambiata, perché non avevo mai visto una
razza di mortali così straordinaria per l'aspetto, i vestiti e il contegno. Alcuni di
loro avevano la testa inclinata a destra, altri a sinistra, e i loro occhi erano
voltati l'uno verso il naso, l'altro verso il cielo; sui vestiti portavano ricamate le
figure del sole, della luna e delle stelle, mescolate con quelle di vari strumenti
musicali, come violini, arpe, trombe, chitarre, clavicembali e altri strumenti
sconosciuti fra noi. Alcuni di loro erano seguiti da persone che sembravano al
loro servizio, ciascuna delle quali portava una vescica attaccata alla punta di
una bacchetta, dentro a cui stavano, come seppi dipoi, molti fagioli secchi o
sassolini; con queste vesciche picchiavano ogni tanto la bocca o gli orecchi del
loro padrone, né da prima potei indovinarne la ragione.
Sembra che codesta gente sia tanto immersa nelle sue profonde meditazioni
da trovarsi in uno stato di perpetua distrazione, dimodoché nessuno può parlare
né udire i discorsi altrui se qualche impressione esterna non viene a scuotere i
suoi organi vocali o uditivi. Perciò le persone benestanti hanno sempre seco un
domestico battitore (o climénole, come essi lo chiamano) il quale ne risveglia
l'attenzione: né escono mai di casa senza di lui. Il battitore ha l'incarico, quando
due o tre persone si trovano insieme, di colpire via via con la vescica la bocca
di colui che deve parlare, quindi l'orecchia destra di colui o di coloro a cui è
diretto il discorso. Né riesce meno utile il battitore al proprio padrone durante le
sue passeggiate, col dargli dei piccoli colpi sugli occhi quando quegli sta per
cadere in un precipizio o per batter la testa in un palo, o per urtare qualcuno o
per essere spinto in un fossato.
Questa spiegazione era opportuna per non lasciare il lettore nella perplessità
in cui io stesso mi trovai nell'osservare il contegno di codesta gente, mentre
venivo condotto alla sommità dell'isola dove era il palazzo reale. Mentre vi
salivamo, costoro si scordarono parecchie volte di ciò che dovevano fare e mi
piantarono lì, finché i battitori non ne ebbero risvegliata la memoria. Essi non
parevano neppure molto impressionati dal mio aspetto, dal mio costume
straniero, dalle grida che la mia vista strappava al popolo meno distratto dei
suoi magistrati.
Giunto al palazzo fummo introdotti alla presenza del re, il quale stava seduto
sopra un trono, circondato dai personaggi più ragguardevoli. Egli aveva davanti
a sé un tavolone ingombro di globi, di mappamondi e d'ogni sorta di strumenti
di geometria. Il frastuono fatto dalla gente che mi accompagnava non lo fece
affatto riscuotere, tanto era sprofondato nella soluzione d'un certo problema; e
dovemmo aspettare circa un'ora prima ch'egli finisse codesta operazione.
Due paggi stavano ai suoi lati, con le loro vesciche; e quando il re ebbe finito
il suo lavoro, uno di essi lo colpì piano e con grande rispetto sulla bocca, l'altro
sull'orecchio destro. Parve che sua maestà si destasse di soprassalto, e solo
allora, dando un'occhiata a me e a coloro che mi circondavano, sembrò
ricordarsi della notizia del mio arrivo, datagli un'ora prima. Disse non so che
cosa; e subito un giovanotto con la sua vescica mi s'avvicinò, e mi diede
leggermente con quella sull'orecchio destro. Cercai di far capire, per mezzo di
gesti, che non avevo bisogno di simile svegliarino, ma questo servì soltanto a
farmi passare da persona rozza e poco intelligente. Il Re mi rivolse poi diverse
domande, ed io gli risposi in tutte le lingue che sapevo, ma non potemmo
minimamente intenderci. Allora codesto sovrano, che si distingueva da tutti i
suoi predecessori per la grande ospitalità, mi fece condurre in un ampio
quartiere del suo palazzo, assegnando due domestici al mio servizio.
Fu subito servito in tavola, e quattro distinti personaggi mi fecero l'onore di
pranzare meco. Vi furono due portate, ciascuna di tre piatti diversi. La prima
portata consisteva in una spalla di castrato tagliata in forma di triangolo
equilatero, un pezzo di bove in forma di romboide e un budino fatto a guisa di
cicloide. La seconda portata si componeva di due anatre accomodate in forma
di violini, di salsicce e rognoni simili a flauti e corni da caccia, e di una costata
di vitello fatta come un'arpa. Il pane veniva tagliato dai domestici che ce lo
servivano in forma di coni, cilindri, parallelogrammi ed altre figure
geometriche. Mentre mangiavamo, mi permisi di domandare i nomi di diversi
oggetti nella lingua del paese, e i miei nobili commensali mi risposero con
molta compiacenza, in grazia dell'opera dei loro battitori. (Essi speravano
evidentemente di poter destare la mia ammirazione per i loro rari talenti,
allorché fossi in grado di comprendere il loro idioma). Comunque, potei
prestissimo chiedere il pane, il vino e tutto quanto mi occorreva.
Terminato il pranzo, venne da me un signore, seguito dal battitore e
provvisto di carta, inchiostro e calamaio. Mi fece capire con cenni d'essere stato
mandato dal Re, con l'ordine di insegnarmi la lingua del paese. Rimasi con lui
quattr'ore circa, e in questo tempo scrissi moltissime parole con la relativa
traduzione di fronte, su due colonne; inoltre mi feci insegnare diverse brevi
frasi, il cui significato costui mi rivelava compiendo dinanzi a me ciò ch'esse
volevano esprimere.
Infine, aperto un suo libro, il mio maestro mi fece vedere le figure del sole,
della luna, delle stelle, dello zodiaco, dei tropici e dei cerchi solari, e di tutte mi
disse il nome: poi fece lo stesso per ogni sorta di strumenti musicali e per i
principali termini di codesta arte. Alla fine della lezione, mi fabbricai da me una
specie di piccolo vocabolario di tutte le parole imparate e, grazie alla mia pronta
memoria, in poco tempo sapevo discretamente la lingua laputiana.
Codesta isola volante si chiamava infatti Laputa, parola di cui volli indagare
la probabile etimologia. Mi dissero che nel loro linguaggio antico e ormai
disusato Lap significava alto, e untuh governatore: da Lapuntuh, per corruzione,
sarebbe derivato Laputa. Questa spiegazione però mi persuase poco,
sembrandomi alquanto sforzata, e ne volli proporre un'altra ai sapienti del
paese. Secondo me, Laputa deriva da Lap uted: lap vuol dire “riflesso dei raggi
solari in mare”, e uted ala. Sottometto questa etimologia al giudizio del lettore,
senza del resto insistervi troppo.
Le persone alle quali il re mi aveva affidato s'erano accorte intanto che i miei
abiti erano disordinati e scomposti, sicché ordinarono a un sarto di venire, la
mattina dopo, a prendermi le misure. Costoro esercitano la loro professione in
modo totalmente diverso dai loro colleghi europei.
Quel sarto, infatti, cominciò col misurare la mia altezza col sestante, poi
prese le dimensioni della mia vita e delle varie membra col metro e col
compasso, e scritte tutte le cifre sopra un pezzo di carta, fece un calcolo assai
complicato. Sei giorni dopo mi portò un vestito che mi stava malissimo; ma egli
si scusò dicendomi che aveva sbagliato un'operazione. Mi consolai col notare
che tali inconvenienti sono colà frequentissimi e nessuno vi bada. Durante i
giorni che rimasi a casa, sia per mancanza di vestito, sia per una leggera
malattia che ebbi, accrebbi molto il mio vocabolario, sicché la prima volta che
ritornai a corte potei capire gran parte di quello che il re mi diceva, e
rispondergli alla meglio.
Il re aveva ordinato di spostare l'isola verso Lagado, capitale del suo reame
di terra ferma, e quindi verso certe altre città e villaggi da cui doveva ricevere le
suppliche; ciò che veniva fatto per mezzo di numerose cordicelle aventi un
piombino in cima. I sudditi vi attaccavano le loro domande, e quando codesti
fogli venivano tirati su, parevano, per l'aria, altrettanti cervi volanti. Qualche
volta ci facevamo dare anche botti di vino e provviste di viveri, che erano tirate
su con arganelli.
La distanza di lì a Lagado era di circa novanta leghe, e il viaggio durò
quattro giorni e mezzo: il movimento dell'isola attraverso l'aria era quasi
insensibile. Il secondo giorno, dopo le ore 11, il re in persona e i suoi nobili,
cortigiani e ufficiali presero i loro strumenti musicali e seguitarono a suonare
tre ore senza interrompersi, sì che ero sbalordito dallo schiamazzo, tanto più
non rendendomi conto del motivo di quel contegno. Ma il mio mentore mi
spiegò che gli abitanti di quell'isola hanno l'orecchio intonato con la musica
delle sfere, e siccome queste in certi periodi mandano suoni, essi fanno loro
l'accompagnamento con gli strumenti che ciascuno conosce meglio.
Il linguaggio di quella gente era pieno di metafore tratte generalmente dalla
musica o dalle matematiche; ed io imparai presto a capirle per le nozioni che
avevo di codeste scienze. Tutte le loro idee si esprimevano per mezzo di linee e
di figure: per esempio la bellezza d'una donna o di qualunque altro essere
animale veniva da essi elogiata con termini geometrici e descritta con parole
tecniche dell'arte musicale, che qui non giova ripetere. Anche nelle cucine di
sua maestà trovai ogni maniera di strumenti di musica e di matematica, di cui i
cuochi si servivano per tagliare e formare i cibi per la tavola regale.
Le loro case erano costruite malissimo; i muri delle stanze non avevano
neppure un angolo regolare. Questi inconvenienti dipendevano dal disprezzo
nutrito da codesta gente per la geometria applicata, che veniva da essi
considerata come scienza volgare e meccanica.
Essi danno ai loro operai indicazioni talmente astratte, che non possono
venir da costoro comprese; sicché ne nascono continui errori. Inoltre essi sono i
peggiori ragionatori del mondo, sempre pronti a contraddire, specialmente
quando hanno torto; e di rado succede loro d'aver ragione. Sono poi lentissimi,
nonostante la loro bravura nel maneggiare matita e compasso, a concepire tutto
quanto non si riferisca alle matematiche e alla musica, e vi arrivano solo in
modo approssimativo. Tutta la loro intelligenza si limita a codeste due scienze;
invenzione, immaginazione e fantasia restano loro così estranee, che la loro
lingua non contiene neppure le parole equivalenti a codesti tre concetti.
Molti di loro, e specialmente quelli dediti all'astronomia, credono poi
nell'astrologia giudiziaria, pur non osando confessarlo; ma più straordinaria e
inesplicabile ancora è la loro passione per la politica e la loro curiosità per le
notizie che le si riferiscono. Non fanno che parlare di affari di stato e tutti
vogliono trinciar giudizi, difendendo con accanimento ciascuno il proprio
partito. Questa stessa manìa ho riscontrato spesso anche nei matematici europei.
Pure, non so vedere alcuna analogia tra matematica e politica; a meno di non
supporre che, avendo un grandissimo cerchio lo stesso numero di gradi di uno
piccolo, colui che può ragionare sopra un piccolo cerchio tracciato sopra la
carta sia anche capace di ragionare sull'immensa sfera del mondo. Ma è più
semplice spiegare codesta mania con la debolezza, comune negli uomini, di
volersi occupare proprio di ciò che non li riguarda e di cui meno possono
intendersi.
Codesto popolo è sempre inquieto e in preda alle paure, e la causa dei loro
perpetui timori è proprio quella che non ha mai tolto il sonno a nessuno degli
altri uomini: essi stanno in apprensione per i mutamenti dei corpi celesti.
Credono, per esempio, che la terra a forza di avvicinarsi al sole finirà con
l'esserne assorbita; oppure che la superficie solare si coprirà a poco a poco di
una crosta formata dalle stesse sue emanazioni e non potrà più illuminare il
mondo. Dicono che se la terra è scampata alla coda dell'ultima cometa, il cui
urto l'avrebbe distrutta, non scamperà alla prossima, che secondo i loro calcoli
apparirà fra trentun anno e riceverà dal sole al perielio un calore mille volte più
forte di quello del ferro rovente. Essa, discostandosi dal sole, si trascinerà dietro
una coda fiammeggiante larga centoquattordicimila miglia; e se la terra vi
passasse attraverso sarebbe arrostita e incenerita, quando anche si trovasse a più
di centomila miglia dal nucleo della cometa. Essi temono anche che il sole, a
forza di spandere i suoi raggi senza che la sua combustione sia da nulla
alimentata, finisca col consumarsi, fenomeno che porterebbe la distruzione del
nostro e degli altri pianeti del sistema solare.
Pensando a questi pericoli e ad altri egualmente terribili, essi stanno sempre
in paura, non possono dormir tranquilli e non gustano piaceri di sorta. Ogni
mattina, quando s'incontrano, si domandano per prima cosa notizie del sole,
qual'è la sua salute e che aspetto aveva al tramonto e alla levata; quindi
s'informano dell'approssimarsi della cometa, e se vi sia speranza di scansarla.
Tutti i loro discorsi sono della stessa fatta, e i loro bambini si divertono a
udire terribili storie di spiriti e di fantasmi, che ascoltano avidamente, salvo poi
non poter andare a letto dalla paura.
Le donne che abitano in quell'isola, essendo molto vivaci, disprezzano i
propri mariti e hanno molta inclinazione per gli stranieri, dei quali v'ha gran
numero al seguito della corte per affari pubblici o privati, o per interessi delle
loro città o corporazioni. I laputiani li trattano dall'alto in basso perché non
hanno la loro scienza; ma le dame di qualità scelgono fra costoro i loro cicisbei.
Ciò che più urta è la sicurezza che godono nei loro intrighi, perché i mariti sono
tanto assorti nelle loro geometriche speculazioni, che ci si può prender qualsiasi
confidenza con le loro mogli in loro presenza senza che se ne accorgano, purché
abbiano una penna in mano e non siano accompagnati dal battitore con la sua
vescica.
Codesta isola è deliziosissima, e donne e fanciulle vi conducono una vita
agiata e magnifica; pure non vi stanno volentieri, perché non basta loro andare e
venire per l'isola e fare il loro comodo, ma si struggono di scendere in terra
ferma e godere i piaceri della capitale, dove invece non possono recarsi senza il
permesso del re; né è facile che l'ottengano, perché i mariti si sono accorti
quanto sia poi difficile farle tornare a Laputa.
Mi raccontarono che una grande dama di corte, moglie del primo ministro, il
più bell'uomo del regno e il più ricco e che l'amava con passione, ottenne il
permesso di andare a Lagado con la scusa della salute; e là restò nascosta
parecchi mesi, finché i birri mandati dal re non la trovarono in un albergaccio,
in uno stato da far pietà, priva perfino dei suoi abiti che aveva venduto per
mantenere un lacchè vecchio e brutto, che la picchiava tutti i giorni. Strappata
per forza a quella indecorosa compagnia e restituita al marito, il quale la trattò
con ogni bontà e amorevolezza e non le fece neppure un rimprovero, poco dopo
essa scappò di nuovo con tutti i suoi gioielli per andare a ritrovare quel
mascalzone; e non se ne seppe più nulla.
Questa storia sembrerà forse al lettore molto europea e magari inglese, ma
d'altra parte i capricci del sesso femminino non sono propri di una sola parte del
mondo e di un solo clima, ed hanno maggiore uniformità di quanto si creda.
Dopo un mese ero così progredito nella loro lingua da poter rispondere a
quasi tutte le domande del re, quando avevo l'onore di essere ammesso alla sua
presenza. Sua maestà non mostrò il più piccolo desiderio di conoscere la storia,
le leggi, la politica, la religione o i costumi dei paesi dov'ero stato, ma si
contentò d'informarsi dei progressi che in ciascuno di essi aveva fatto la
matematica, accogliendo del resto le mie risposte con molta indifferenza e
disattenzione, nonostante che i battitori lo facessero riscuotere ogni tanto.